Saggio breve su “Postumi dell’organizzazione” di A. Leonessa

Dopo la pubblicazione di “Postumi dell’organizzazione” di Andrea Leonessa il primo di novembre, dedichiamo oggi un post al saggio breve che Pierfrancesco Biasetti ha scritto per la silloge. Il testo completo è incluso, insieme a una nota di Gian Ruggero Manzoni, nell’ebook “Postumi dell’organizzazione”, che potete leggere o scaricare da Biblioteca di  f  l o e m a.

Andrea Leonessa – Postumi dell’organizzazione

Ancora una volta il post sarà arricchito da alcuni lavori dell’artista tedesca Diana Lange, che ringraziamo per avere concesso l’uso delle immagini.

Centoventi giornate
La notte di Ognissanti ho organizzato
un sussulto vaporoso, un turibolo-party
(…Te lo giuro, era chiaro con cosa dovessi presentarti)
dove ognuno spargeva quel cazzo che voleva
e vinceva la puzza che non andava e fu Warzone 2100,
esatto, lo strategico per Playstation che risuscita
un po’ come, sappiamo, non converrebbe ai morti
ovvero con il ricordo di una missione a tempo
ed una terra desolata abitata da gente così strana
da desiderare un futuro; personalmente non voglio,
generalmente intendo, figurarsi vivere ricostruendo.
(è la fine, pensavo, così t’ho fatta entrare
perché questa mania di riprovare, e non mentire…
Ok, prossima volta non dimenticare il turibolo
già sento la puzza delle giornate di Sodoma
che durerà, dureranno sempre più di noi)

/*Warzone 2100, lo ricordo con poca nostalgia.
Poi parla anche di un ragazza, questa poesia qui,

con la quale non sono riuscito ad avere, nonostante svariati
tentativi, una relazione che durasse più

di 120 giornate e però dai se spiego tutto svegliaaa/*

Anton Rose – Diana Lange, 2013


1. Delle Consolle, e di quanto velocemente diventino obsolete

          Andrea Leonessa ha 24 anni: e questa misura anagrafica potrebbe sembrare del tutto inutile per dare una valutazione specifica del suo lavoro, sopratutto se confrontata col metro dell’eternità cui – si dice – dovrebbe aspirare ogni forma di letteratura, più di tutte la poesia. Ma i ventiquattro anni di Leonessa sono invece un dato fondamentale per cogliere un primo aspetto interessante dei suoi versi. Leonessa sceglie infatti di assemblare poesie a partire da elementi di realtà masticati e assimilati durante un’adolescenza (mera invenzione del secolo ventesimo, come ci ricorda the governor in Walking Dead) vissuta durante gli anni zero. E insistendo, o meglio, girando a vuoto attorno a questo asse in un circolo che da vizioso si fa spesso virtuoso, Leonessa è in grado di restituire una cruda descrizione della sempre più vertiginosa fatuità con cui si avvicendano i linguaggio e gli immaginari giovanili. Gli elementi di realtà da cui parte, proprio per quella che è la caratteristica fondante e imprescindibile della nostra epoca, sono infatti oramai elementi di irrealtà: irrimediabilmente passai e quasi dimenticati, sono diventati obsoleti, invecchiando molto più rapidamente di quanto possa essere invecchiato l’ancor giovane autore. E in questo modo è misurata la velocità irreprensibile con cui gli immaginari nell’era digitale diventano obsoleti e di difficile comprensione, senza pagare il prezzo di una faticosa e noiosa ingegneria inversa. Di più: è anche svelata – forse volutamente, forse no, ma in fondo che importa di fronte al dato di fatto? – la crudeltà che porta con sé questo processo di rutilante avvicendamento. Proprio nel momento in cui gli esseri umani, almeno nel mondo occidentale, vedono estendersi sempre più la già lunga coda della loro giovinezza, le generazioni, assieme alla loro comunità di significati, tendono a essere superate nel giro di pochi anni – tanto che si può forse sostenere che il primo fenomeno è solo un disperato tentativo di adattamento al secondo. Senza lasciarsi andare a improvvisati giudizi sul merito, ciò che accade è il ben noto fenomeno per cui si è in qualche modo giovani in eterno («ragazzi» di trenta, quaranta, e perché no, cinquanta anni…), ma il lasso di tempo entro il quale una nuova generazione può godere del privilegio di trovarsi al centro di un immaginario condiviso  realmente giovanilistico è sempre più corto. L’epoca digitale, in poche parole, sembra aver sconfitto la vecchiaia (o meglio, la ha nascosta sotto il tappeto), ma a sostituire questa ha chiamato l’obsolescenza.
          Quest’ultimo è del resto un fenomeno prevedibile a partire dalla velocità e dalla fluidità con cui cambia attorno a noi il panorama tecnologico – e conseguentemente il panorama culturale – se paragonato alla fissità, invece, della nostra vita biologica. Mentre l’infosfera che ci circonda si riempie sempre di più di nuovi stimoli, e aumenta esponenzialmente la quantità di informazioni e di canali attraverso cui queste possono viaggiare, la potenza dei nostri terminali sensoriali rimane fissata a quella che era nella civiltà industriale, contadina, preistorica. Mentre le memorie digitali diventano sempre più capaci e meno costose, le dimensioni dei nostri storage biologici è sempre la stessa, ed è destinata a saturasi ancor più velocemente con l’accrescersi della complessità della massa di informazioni esterna. Ma non solo. A dispetto del gran parlare di transumano e postumano, siamo fino a prova contraria ancora fin troppo umani. Carne, ossa, nervi, e midolla, certo, ma sopratutto cervelli assemblati nei tempi lunghi dell’evoluzione: strutture neuronali attraversate da una architettura stratificata il cui cuore di tenebra è pur sempre composto da un marchingegno alimentato da desideri, emozioni, sentimenti, e la cui forma generale è rimasta immutata da ere immemori. E risiede proprio nella geometria fissa di questo nucleo profondo la ragione per cui il ballo delle generazioni è diventato sempre più frenetico, e il tratto di esistenza in cui riusciamo a rimanere allineati alla barra del progresso tecnologico sempre più corto: abitudine, nostalgia, affezione, ma sopratutto l’inesorabile irrigidirsi della curiosità e della plasticità della nostra personalità finiscono per svuotare le nostre gambe proprio poco dopo che avevamo spezzato il fiato nella corsa – ed ecco che già una nuova generazione sopraggiunge alle nostre spalle e ci supera. L’obsolescenza precoce non è quindi soltanto causata da limiti di capacità della nostra macchina cognitiva: è la macchina emotiva a incontrare piuttosto le difficoltà maggiori nell’epoca digitale, col suo carico di ricordi e nostalgie che finiscono per ossificarsi in una zavorra destinata a trascinarci a fondo.
          Questa lunga digressione credo possa risultare utile per inquadrare un primo lato del lavoro di Leonessa, autore che come ho scritto in apertura del testo gioca con un insieme di riferimenti tipici a una specifica generazione, e che rischiano di essere del tutto incomprensibili se non ai pochi compagni di viaggio che avevano sedici anni o giù di lì attorno alla metà degli anni zero. Due di questi elementi obsolescenti di immaginario che si ritrovano nei testi di Leonessa sono, per esempio, la consolle SEGA Dreamcast, e il videogame  Rez di Tetsuya Mizuguchi, gioiellino di immaginario ludico che ha tra le proprio fonti d’ispirazione il lavoro di Wassily Kandinskj. Ed è scontato porsi subito la domanda di quanto possa essere intellegibile una poesia con questi riferimenti anche solo tra dieci anni, e quanto valga pertanto la pena non solo scriverci sopra, addirittura leggerla. Tra le orde di ragazzini che a breve acquisteranno una Xbox One o una Playstation 4, a parte qualche sparuta eccezione – ne esistono, ma sono per l’appunto eccezioni – non ce ne sarà neanche uno in grado di sapere che cosa è stata una Dreamcast [1]. E forse qualcuno di questi ragazzini avrà magari giocato a una delle versioni aggiornate di Rez rilasciate anche dopo il 2008, ma anche se fosse, nel giro di pochi anni tutto ciò che probabilmente rimarrà di questo titolo sarà soltanto una pagina di Wikipedia, dei video su Youtube, e le Rom messe in download da qualche nostalgico. Partendo da qui mi sono chiesto, se un poeta deve aspirare all’eternità, come può farlo partendo da una poesia che si fa forza di rimandi così caduchi per avviare il proprio apparato immaginifico? Anche solamente il gioco linguistico nel titolo della prima poesia di questa raccolta, Pus the start button, quanto potrà resistere prima di essere trascinato nell’incomprensione da parte di un mondo che si avvia a sostituire tutti i bottoni col riconoscimento gestuale o vocale, o addirittura con la fusione tra macchina e sistema nervoso? Qualcuno dei ragazzini di cui scrivevo prima tra qualche anno magari comincerà a interessarsi di poesia. Per quanto geek, come potrà comprendere, o anche solo alimentare la propria voglia di comprendere un testo con riferimenti che sono sì così vicini temporalmente, ma in fin dei conti così distanti culturalmente? E che dire, poi, di quanti non hanno neanche mai saputo che cosa fosse una Dreamcast perché il proprio orizzonte degli eventi è fermo al Vic-20, o alla televisione, o alla radio… o addirittura alla stampa?
          Si dice spesso che la poesia è per sua natura la forma espressiva d’arte delle civiltà contadine – civiltà che che per loro natura tendono a perpetuarsi, e dove le generazioni invecchiano e passano senza mai davvero diventare obsolete. Allargando il discorso, è davvero possibile costruire forme di comunicazione artistica in quella che sembra essere l’era dell’incessante moltiplicarsi e scomparire degli immaginari? Sembrerebbe di no. Pure, come scrivevo in precedenza, l’architettura dei nostri cervelli è sempre la stessa, e più andiamo nella sua profondità, più troviamo elementi sempre più rigidamente cablati e immutabili. In quell’abisso marino sembrerebbe possibile per l’espressione artistica proiettarsi oltre tutte le generazioni passate e perdute, e parlare delle stesse emozioni, desideri, e pulsioni che spingevano i Cro-Magnon a imprimere la forma dei propri palmi cosparsi di pigmento sulle pareti delle grotte. È vero, anche il materiale immaginifico cui attingevano quei primi uomini è per noi del tutto alieno: nei recinti della nostra civiltà, quanti di noi hanno osservato da vicino una vacca, figuriamoci che ne possiamo sapere di un uro, animale estinto da secoli! Ma questo significa che abbiamo perso del tutto la capacità di gettare un ponte con quel mondo, e mettere in moto il nostro macchinario di desideri e sentimenti per comprendere il significato di quelle pitture rupestri? Là sono passati millenni. Ma oggigiorno, nel giro di pochi anni – il breve tempo perché sfilino una, due generazioni – le persone si trovano spesso di fronte a nuove rappresentazioni comunicative tanto incomprensibili quanto lo possono essere le immagini di animali estinti sulle pareti di una grotta. La comunicazione artistica è destinata a un avvenire sempre più entropico?
          Forse. Ma intanto il marchingegno di desideri ed emozioni è sempre lì, borbottante e gorgogliante al centro di un universo culturale che tanto più cambia quanto i nostri modi di essere profondi rimangono gli stessi. E nonostante i suoi difetti, è in grado di garantirci la possibilità di una comunicazione che possa aspirare a quel minimo di stabilità di trasmissione verticale richiesta da ogni forma di letteratura – più di tutte la poesia. E la Dreamcast di Leonessa, per quanto obsoleta e di difficile metabolizzazione per i più, è soltanto un dannato dettaglio poetico che non deve nascondere quanto di comune a tutti – di trasversale quindi a ogni essere umano – c’è nella poesia di Leonessa. Che adopera invero un universo di riferimento assai peculiare, quasi certamente non per tutti, ma che una volta ingoiato come la pillola rossa di Matrix apre comunque un mondo da esplorare sorprendentemente antico e profondo. Il paesaggio che si svela dietro la poesia di Leonessa è, infatti, di là degli orpelli tecnologici tra il datato e il nostalgico di cui si agghinda, dominato dal riaffiorare di uno dei fiumi carsici più lunghi ad aver mai attraversato la storia del pensiero umano: quello della gnosi. E Leonessa si bagna in questo fiume, sembra trovare conforto tra le sue acque: tranne poi dopo sbattere le braccia stizzito sulla sua superficie, una volta scoperte le impurità sul fondo.

Saturno
Le case saranno un argomento, una carne
sotto una atlov capovolta ad absurdum
un input riverso, un escrescenza cava
che un sangue spunta a giaciglio; optare
per la notte, attuare un sonno, mettere
una cosa nella cosa, ché una cosa che nasce
emette un rumore, e va fatto silenzio, presto
prima che la carne apprenda un ritorno, subito
addomesticata a retrocedere per un accesso
esterno, che porta a nulla : questo è Saturno
quando a nessuno succede la morte, e una prole
sterminata s’accasa nel ventre del tempo.

/*Questo per dire che dovremmo evitare di fare figli,
poiché circondati da una quantità di carne, la

nostra, sufficiente a sfamarci. No ai plug-in, insomma/*

 

Sina – Diana Lange, 2013

2. Della gnosi, e della volontà di superare la carne

          Leonessa uno gnostico, certo: per cui la tecnologia ha preso però il posto della teologia. E non si tratta questa di un’eccentrica follia da solitario divoratore di yogurt notturno (come sembra a tratti volersi descrivere il nostro nelle sue poesie). Si tratta invece dell’abile inserto in quello che è un topos letterario tutt’altro che poco bazzicato nella nostra epoca, nonostante il suo apparente anacronismo, e che Leonessa maneggia con una destrezza piuttosto sorprendente. Gnosticismo digitale, direi quindi. E prendiamo a tal proposito quello che ne è forse l’esempio più eclatante: il “deragliato esperimento di darwinismo sociale” che è il mondo immaginato da William Gibson in Neuromante. Il protagonista di questo romanzo è Case, giovane hacker tossico che troviamo all’inizio della storia immerso in una situazione esistenziale per lui disperante: Case, in passato, si è messo di traverso alle persone sbagliate, e come risultato si è ritrovato il sistema nervoso alterato da micotossine di origine militare che gli impediscono di accedere alla «matrice», il mondo virtuale dove Case lavora e vagabonda, e il solo in cui si senta davvero vivo. In questa condizione, Case si ritrova miseramente “precipitato nella prigione della propria carne”. L’idea del corpo come una prigione, assieme a quella di una dimensione immateriale parallela a quella fisica cui risalire in un cammino di liberazione, sono capisaldi centrali della tradizione gnostica, per cui la vita umana comincia quando lo spirito – o la mente, poco importa l’etichetta che decidiamo di adoperare – si ritrova invischiato nella vita materiale: quando, ovvero, si ritrova ingabbiato nel sarcofago di carne che lo fa precipitare nel mondo terreno tenendolo lì intrappolato, incapace di tornare a solcare di mondo di pure anime posto di là della esistenza materiale. Scopo centrale della gnosi diventa quindi quello di riuscire a liberare il proprio spirito dalla carcassa che lo tiene zavorrato al mondo materiale, per il mezzo di un percorso di illuminazione e pratiche ascetiche. I personaggi di Gibson sembrano proprio degli gnostici contemporanei, che hanno adattato il nucleo centrale della gnosi al mutato panorama per cui la tecnologia ha oramai del tutto sostituito la visione teocentrica del mondo (Neuromancer è del 1984). Nello gnosticismo classico la dimensione immateriale è infatti chiaramente una dimensione spirituale, mentre nella sua versione contemporanea essa è una dimensione virutale. Ma si tratta di una differenza di poco conto, che non comporta l’arretramento nei confronti della idea centrale dello gnosticismo, quel dualismo tra materiale e immateriale che assume i contorni escatologici di una lotta per liberarsi dalle catene fisiche create dal malvagio demiurgo. La posa dell’ambiente dei “Cowboy del Cyberspazio” come Case, racconta Gibson, “comportava un certo disinvolto disprezzo per la carne. Il corpo era carne”. Come è noto, anche il cristianesimo da sempre predica il disprezzo della carne, ma Gibson è anche qui molto chiaro a definire il tutto in chiave gnostica. Pur esecrando la carne, infatti, il cristianesimo sostiene la resurrezione dei corpi: anatema, invece, per gli gnostici, e anche per i personaggi di Gibson, che non esitano a definire una “farsa” l’immortalità che può derivare dalle tecniche della criogenica – un’immortalità che è ancora condannata alla necessità di trascinarsi dentro un supporto biologico. L’unica vera idea di libertà riconosciuta da Case è quella che comporta il travalicamento del proprio corpo, attraverso le droghe o il mondo di pura informazione della matrice: tutto ciò che può allontanarlo da quella semplice sacca di carne che sente di essere nel mondo materiale.
          Non deve stupire che il mondo ipertecnologico che ci circonda sia così ricco di riferimenti a quello che a prima vista potrebbe sembrare a prima vista un relitto malconcio della storia del pensiero. Il pensiero gnostico, in realtà, pur combattuto e sconfitto numerose volte (anche con la violenza: basti pensare ai Catari, basti pensare ai Bogomili), sembra presentare gli stessi caratteri dell’Araba Fenice. E lo Zeitgeist attuale contiene elementi piuttosto favorevoli a una sua nuova resurrezione: la società informatica, infatti, fa della propria valuta pregiata qualcosa di impalpabile e neutrale di fronte a ogni substrato come l’informazione, e attraverso la dicotomia tra hardware e software genera spontaneamente un analogon tra l’immaterialità delle attività spirituali e la pesante fisicità, invece, dei supporti in grado di ospitarle e incapsularle, con tutto il corredo di dualismi tra volatilità e fissità, continua evoluzione tramite upgrade e rapida obsolescenza, impalpabilità del codice e fisicità della macchina. L’idea stessa di software, del resto, di qualcosa in grado di saltare da un supporto all’altro rimanendo intatto e di evolversi tramite continui upgrade non può che solleticare nelle nostre menti l’antico archetipo di uno spirito capace di muoversi autonomamente nel mondo di là della dimensione fisica della materia. Non è un caso, forse, che una delle menti più sensibili dello scorso secolo riguardo a quelli che sarebbero stati gli sviluppi futuri della nostra società, Philip K. Dick, abbia dedicato con la trilogia di Valis gli ultimi sforzi della sua carriera di scrittore alla questione dello gnosticismo.
          E se la la società informatica è una società che può facilmente scivolare nelle suggestioni del dualismo tra informazione e materia, può anche risvegliare in noi un altra forma di dualismo, quello tra la corporeità biologica della carne e la corporeità meccanica delle macchine. E la prima forma di corporeità è destinata a soccombere di fronte alla seconda: sebbene meri supporti fisici, le macchine sono in grado di evolvere a un ritmo esponenziale verso un regime di sempre maggiore perfezione, in un’accelerazione nella quale la macchina biologica che siamo non è assolutamente in grado di tenere il passo. E una nuova forma di liberazione gnostica sembra diventare possibile: se è vero che la nostra «anima» non è altro che pura informazione, allora sembrerebbe possibile staccare questa dal farraginoso supporto biologico su cui gira, il corpo, e installarla nel nuovo corpo macchinico evolvibile. È questo, almeno in parte, il sogno cui mira il movimento estropico, la «setta» contemporanea che più di ogni altra sembra assomigliare a una nuova forma di gnosticismo organizzato. In poche parole, l’uomo è irrimediabilmente obsoleto (come cantavano facendo il verso a Gunter Anders i Fear Factory negli anni novanta, sebbene in quel caso la redenzione nelle tracce finali di Obsolete sembrava avvenire grazie a una riscoperta della spiritualità nell’umano inteso come corpo, e non contro di esso).
          Insomma, sembrava ieri che un Gilbert Ryle distruggeva il mito cartesiano dello «spettro nella macchina», che ecco la nuova cultura digitale sembra riproporre forme di dualismo sempre più spinto, in cui, tanto per citare l’opera uscita dalle matite di Masamune Shirow, il dato realmente umano è rappresentato come un Ghost in the shell. La poesia di Leonessa si situa perfettamente in questo fiume di ansie, suggestioni, profezie farneticanti – o lungimiranti, a seconda delle sorprese che ci riserverà il futuro – che contraddistingue la riflessione dell’animale umano di fronte all’incredibile forze che esso ha evocato tramite il progresso tecnologico, riprendendo categorie che vengono da molto lontano, ma che sembrano non aver mai smesso di esercitare il loro ascendente. E l’operazione di Leonessa è tanto più interessante vuoi perché lo fa adoperando un mezzo – quello della poesia – che proprio per la sua natura apollinea sembra essere avulso a questo genere di interlocuzione coll’immediato, vuoi perché adopera come materia grezza la propria giovanile e limitata esperienza esistenziale privata, creando un misticismo da cameretta che proprio per questo è capace di non prendersi mai troppo sul serio e non cedere alle lusinghe dell’intellettualismo. Ma, sopratutto, l’operazione di Leonessa mi sembra interessante perché essa è in grado di rovesciarsi dialetticamente sui propri presupposti: nonostante tanto sbraitare contro il corpo, nei versi di questa raccolta versi non si fa altro che trovare, infatti, al fondo della complessa stratificazione di giochi verbali, la netta dimostrazione della ferma insuperabilità della carne.

Securitas chimica
Durante una passeggiata, la techno ad 8 bit
suona naturale molto più che il temporale
e nauseante scrosciare della carne, scrosciare
che è verbalmente disgustoso, letteralmente
http://it.wikipedia.org/wiki/Vomito(espulsione del verso

Frauke – Diana Lange, 2013

a capo) Hotfix estivo, il verbo è sedato oralmente
da una compressa ed un sorso della nostra cedrata
e passeggiamo ancora, non pensare, ancora sul colle
con le cosce bagnate a guardare le cose.

/*Ancora sul vomito, manifestazione davvero curiosa
di espressione umana. 
Tra tutte le possibilità comunicative,
il vomito mi trasmette sempre qualcosa di complesso./*


3. Del vomito, o dell’impossibilità di superare la carne

          Con Pus the start bottom siamo subito posti di fronte al leitmotiv di buona parte delle poesie raccolte in questa silloge: non è la matrice il dominio gnostico di libertà di Leonessa, esso sembra piuttosto essere racchiuso nello spazio di febbrile veglia videoludica imposto dalla Dreamcast. La scena descritta da questo componimento spezzettato e farcito di polisemie potrà risultare estremamente familiare ad alcuni, allucinatamente aliena ad altri: una veglia notturna, alimentata a yogurt, di fronte a una consolle per videogiochi. L’alba coglie l’insonne impreparato: “bisogna fare delle facce strane, per tollerare la luce”. Nei pixel posti dietro il videoschermo si racchiude l’intera esistenza libera cui è allacciato il videogiocatore, col corpo biologico, intermediario fisico tra la sua mente e il reame virtuale, posto come unico limite verso il completo assorbimento nel mondo ultraterreno dell’esperienza videoludica. Unico limite anche per ciò che concerne le relazioni con gli altri, strette nel recinto delle pulsioni che il corpo stesso secerne. L’organico, come descrive con freddezza Leonessa in Lollo, ad un certo punto, va veloce e tramonto, è pulsione profonda capace di prendere il sopravvento sulla nostra dimensione spirituale, prigioniera in una gabbia di carne che è anche gabbia di pulsioni e desideri: “sbandavo sistematicamente/nel tuo sorriso, ed era tutta colpa dell’organico, che sapevo/capace di sconnettere all’utile un sistema nervoso”. Proprio per combattere questi nefasti impulsi della carne, secondo alcune sette gnostiche la massima aspirazione del saggio era il lasciarsi morire d’inedia. E sembra quasi che Leonessa provi questa tentazione, a dar retta al modo tormentato in cui inserisce nei suoi versi riferimenti a improvvise bulimie notturne a base di yogurt e scatolette di tonno. Ma è in Saturno che questo precetto estinzionista è argomentato nella sua maniera più logica e conseguente: il commento – quel commento che chiude ogni testo della silloge stilato nella maniera di un programmatore posto di fronte a un pezzo di codice di programma – che accompagna questa poesia non potrebbe essere più netto: “/*Questo per dire che dovremmo evitare di fare figli, poiché circondati da una quantità di carne, la nostra, sufficiente a sfamarci. No ai plug-in, insomma/*”. E, analogamente, in Ad Emil Cioran, cadavere insigne, il “dis-apparire al mondo” è posto come quello che è in fin dei conti l’unico dovere da assolvere: unico perché fondamentale, unico perché non ve n’è di maggiori.
          Ciò che rimane come ideale è nuovamente la dimensione virtuale entro il quale la mente si muove libera dalla sua prigione materiale. E le possibilità per la mente di costruire nodi esterni al proprio corpo – nodi con altre menti – intrecciando una rete di legami immateriali è forse uno dei temi che attraversano una composizione come Congestione di Marte, divertente descrizione dell’amore ai tempi (oramai superati) dei platform games: “Nonostante Schopenhauer succedeva un amore:/ adesso che ho tempo, e sono solo, piscio sulla realtà/salto da piattaforma in piattaforma, da palo/in pubblicità sigaretta elettronica con Emanuele Filiberto” laddove quest’ultimo verso non è altro che un link ipertestuale al video su Youtube in cui il Savoia ci intrattiene in uno dei suoi soliti siparietti atroci cui ci ha abituato dal tempo delle olivine in salamoia (o erano cetriolini sott’aceto?). Non è tanto la verve comica, o la provocazione insita nell’uso di un link ipertestuale – impossibile da rendere su carta stampata, o su qualunque altro supporto fisico, e non virtuale e allacciato alla rete – a rendere interessante questa uscita di Leonessa, replicata in altri componimenti come Yhwh answer e la già citata Saturno. L’utilizzo dell’ipertesto, lontano dall’essere un trucco da baraccone, è piuttosto una elegante metafora dell’apertura che ogni frammento di informazione porta con sé nella nostra epoca: un apertura che è ricorsività potenzialmente infinita, così come potenzialmente infinite – se non fosse per il dannato corpo, con la sua fame, il suo sonno, e i suoi bisogni – potrebbero essere le notti passate a saltare da un video a un altro su Youtube. E questo saltare “da piattaforma a piattaforma” – che, con la solita polisemia dei versi di Leonessa può essere qui intesa come piattaforma informatica, o come spazio virtuale di cui sono composti i platform games – è al centro della metafora adoperata da Leonessa per descrivere la sua privata e in fin dei conti normale frustrazione sentimentale: “/*da palo in frasca, da una relazione alla stessa relazione/*” è il laconico commento al termine di Congestione di Marte.
          E sempre la piattaforma, o meglio, questa volta senza dubbio i platform games, si trovano al centro di uno dei gioielli della silloge: Morte bidimensionale. Si tratta forse dell’unico «pezzo» in cui Leonessa esce dalla propria cameretta per affrontare un tema che non è di cronaca privata, ma di memoria: la morte dell’anarchico Pinelli. Nei versi di Leonessa l’evento, che è descritto come se accadesse dietro lo schermo del monitor di una consolle su cui sta girando un platform game, assume contorni distaccati e stranianti, proprio come deve apparire la storia anche recente del nostro paese di fronte a generazioni che abitualmente confondono oramai le Brigate Rosse con la strage della stazione di Bologna. Lo spaesamento e le difficoltà di comprensione che proviamo di fronte al concetto di spazio-tempo unificati derivano dall’aggiunta nell’immaginazione di una quarta dimensione alle tre che sono capaci di gestire i nostri sensi euclidei. L’effetto costruito da Leonessa si basa su un’intuizione analoga, ma lavora togliendo, non aggiungendo: scartando una dimensione nello spazio della nostra immaginazione, rendendo la scena bidimensionale, un accadimento storico non può che assumere toni estranianti da cartone animato o, per l’appunto, da videogioco. E questa riduzione non può che avere, dopo l’iniziale spaesamento, un effetto crudele e dissacrante: meglio di ogni saggio teorico sull’argomento, Morte bidimensionale riesce attraverso questo stratagemma a riprodurre nei tempi brevi e lirici della poesia la perdita di senso del concetto di memoria collettiva nell’epoca delle memorie virtuali a basso costo e ad alta capacità. “/*Morte bidimensionale è un pannello informativo inerente alla morte dell’anarchico Pinelli, sfortunato protagonista di un videogioco di piattaforme nella quale una caduta può essere causa di decesso/*”.
          La morte, e il paradigma estinzionista che si incontra tanto di frequente nei testi di questa silloge, non devono essere a mio avviso presi né per nichilismo tanto al chilo, né per un reale esercizio di ascetismo estremo. C’è sicuramente in questo continuo riallacciarsi ai temi dell’estinzione, e al connubio di questa con la dimensione femminile e dell’eros (come accade, per esempio, in Pic-nic sul ciglio della morte, brano il cui titolo ammicca al capolavoro sci-fi dei fratelli russi Boris e Arkadii Strugatzki) un elemento giovanilistico e tardo adolescenziale, a tratti forse anche un po’ seccante. Ma più di ogni altra cosa l’elemento della morte e dell’estinzione è adoperato per costruire una sorta di argomento dialettico in cui le conclusioni sono il rovesciamento pratico delle premesse da cui era partito il ragionamento. In coerenza con l’elemento gnostico che attraversa tutta la sua produzione Leonessa costruisce le sue poesie – e lo si capisce dagli inserti di linguaggio informatico, dai rimandi ipertestuali, e dalla sintassi meccanica che adopera – come se fossero stralci di codice, come software volatile destinato a saltare dal cervello-hardware dell’autore al cervello-hardware del lettore. Il paradigma è qui quello del meme, replicatore a base informazionale-virtuale e non genetico-biologica. Il mondo cui sembrano aspirare queste poesie è un mondo fatto interamente di informazione digitale rarefatta e impalpabile, un mondo di puro spirito declinato attraverso quella che è la cornice tecnologica propria della nostra era. Pure, il contenuto di questi stralci di codice sembra essere sempre rivolto, e a volte lo è in maniera davvero disperante, alla carne, così esecrabile, certo, ma in ogni caso così impossibile da superare… così, in un’unica parola, umana. Per quanto l’obiettivo sia la pratica mortificante di ascesi dello spirito nei confronti del corpo, verso l’universo trascendente del virtuale, è in realtà la carne la vera fissazione di Leonessa, e non si possono avere più dubbi sull’argomento se si scorre nei suoi testi quante volte compaia questa parola: io l’ho contata approssimativamente ventinove volte all’interno di sedici poesie sulle ventisette che compongono la silloge – e ho omesso dal conteggio tutti quei termini che possono essere comunque ricollegati alla dimensione della corporeità. Il mentale è l’unica cosa che conta, il corpo è in fin dei conti soltanto un “terminale di carne” che proprio per la sua fisiologia non può che essere imperfetto e commettere errori di comunicazione, come si legge in Pseudocodifica. Ma nonostante questa valutazione negativa, e il tentativo di propagandare l’ascesi gnostica a base di morte e videogames, è proprio il corpo a essere a mio avviso il vero protagonista delle poesie di Leonessa. Il corpo, e la sua insuperabilità, che alla fine pongono in scacco ogni tentativo di superamento e mostrano l’inesorabile fallimento della gnosi.
          Il vomito è forse una delle figure più vivide adoperate da Leonessa per portare alla luce questa verità occultata sotto le acque apparentemente limpide del fiume gnostico, ed è una figura tanto più potente in quanto, pur mostrando il limite di ogni tentativo di trascendere la situazione corporea, non rinuncia a sbatterci in faccia la natura disgustosa della nostra prigione di carne. Il vomito, scrive Leonessa in appendice a Securitas chimica, è una “manifestazione davvero curiosa di espressione umana. Tra tutte le possibilità comunicative, il vomito mi trasmette sempre qualcosa di complesso”. Ma sopratutto è una manifestazione del tutto incontrollabile, la reazione che il corpo ha a disposizione per riemergere prepotentemente durante il delirio nell’universo virtuale in cui la mente si pensa come qualcosa di diverso e staccato dalla carne che la sorregge: “dicendo no no no questa carne non può/espellere ciò che è dentro, schifosamente/come un adolescente che dalla sua agenda/estrae un’autopsia quadrettata, una tavola/ospedaliera su cui poggiar le sue interiora/oppure, già meglio, come un corpo eretto/che fa outing lasciandosi cadere, finalmente/libero di esprimere la sua natura originale” si legge in Sul vomitare negli uffici pubblici, “titolo eloquente” come ci ricorda lo stesso Leonessa nella chiosa al testo. Nei suoi momenti di delirio narcisista l’io della mente si crede qualcosa di separato e in linea di massima potenzialmente scorporabile dal corpo – come quando la carne è stordita dall’euforia di una sbronza (vedi l’io che «guida» il corpo come se fosse una macchina in Arto secondo, schema piramidale), o ridotta a mero terminale di passaggio tra il controller della consolle e la mente del videogiocatore – ma il vomito, come reazione irriflessa e incontrollabile, interviene a risvegliare il soggetto dal suo delirio mistico e a mostrargli l’insuperabile inscindibilità delle sue componenti mentali e fisiche. E non a caso, tra gli altri testimoni dell’insuperabilità del corporeo ritroviamo, come già ricordato in precedenza, la fame, che è bulimia notturna, gesto speculare e per questo simbolicamente identico a quello irriflesso ed estroflesso del vomito. La madre, sorta di ipostasi della sofia, ovvero della sapienza che si irraggia nel mondo spirituale, può anche cercare di rimettere in ordine il Santuario con pezzi di cioccolato che è il letto reduce da un pasto notturno, ma non potrà mai negare la realtà della fame che lo ha prodotto: “Mamma, queste carcasse le puoi anche spazzare/ma è il loro spirito pralinato che non cede,/che resiste alla spazzola”.
          Accade dunque questo paradosso, che proprio mentre si pone in atto la descrizione del dualismo tra corpo e mente, e della lotta di quest’ultima per separarsi dalla propria prigione di carne e raggiungere la dimensione virtuale che è dimensione spirituale di libertà e di immortalità, la corporeità con i gesti prepotenti e violenti della fame e del vomito nega ogni illusione di dualità, mostrando in qualche maniera come il soggetto, lontano dall’essere uno «spettro nella macchina», è qualcosa di irrimediabilmente incarnato in essa – o forse, addirittura, la sua stessa carne. “Nella omertà della carne accade/brandello per brandello che una sequenza/organica tenda al mondo, allo stato reale” si legge in Triforza motrice: e rimane davvero da chiedersi che cosa sia per Leonessa questa realtà, una volta svelata la duplicità del suo discorso, il suo richiamarsi alla dimensione trascendente della gnosi, e il suo mostrarne i limiti e le contraddizioni, poiché questa ambiguità non sembra essere tolta. Ma per quanto denunciata come qualcosa di insopprimibile, la carne e il mondo materico non sono accettati allora come qualcosa di positivo, dal momento che i fenomeni con cui si impongono al soggetto sono quelli negativi del vomito e della fame, o della pulsione erotica associata alla perdita di controllo o addirittura della vita stessa. La visione di Leonessa rimane a questo punto in bilico, tra fede gnostica nella possibilità della trascendenza dal mondo materiale e insopprimibilità della carne. Ciò che muta è piuttosto l’atteggiamento riguardo nei confronti della poesia, e del suo modo di essere, come dicevo, un modo di muoversi all’interno della sfera del virtuale. Non più manifesto e strumento di propaganda di una nuova ascesi gnostica, la poesia può diventare piuttosto una sorta di «debugging esistenziale», sulla falsariga di quello che sembrerebbe essere implicito, per esempio, in un componimento come /Me, in the merror, in the summer OFF. Sia come sia, essa è destinata a rimanere: come lo dimostrano i versi di questa silloge, ogni materiale umano, anche quello che apparentemente può sembrare il più fragile e il più caduco, se impiegato con arte può essere impiegato per forgiare ciò che chiamiamo poesia, e che è appello agli uomini tutti.

 

Ruben Zumstrull (particolare) – Diana Lange, 2013

 

 


[1] Che, per chi appunto non lo sapesse, è stata una consolle di «sesta generazione» venduta tra il 1998 e il 2001 (ma supportata fino al 2007), all’epoca della sua uscita sul mercato la diavoleria videoludica più potente in circolazione.


Pubblicato

in

, ,

da

Commenti

Una risposta a “Saggio breve su “Postumi dell’organizzazione” di A. Leonessa”

  1. […] l’approfondimento critico a cura di Pierfrancesco Biasetti qui: https://www.diaforia.org/floema/2013/11/18/saggio-breve-su-postumi-dellorganizzazione-di-a-leonessa/E’ un peccato che “Postumi dell’organizzazione” non sia stato premiato, a […]

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *