È uscita, a cura di Giovanni Fontana e Daniele Poletti, una nuova edizione dello storico, unico romanzo di Adriano Spatola, L’oblò, pubblicato nel 1964 da Feltrinelli (con in appendice, a completare l’opus narrativo dell’autore di Verso la poesia totale, anche il racconto Apocolocyntosis), accompagnato da testi critici di Fontana, Francesco Muzzioli e Chiara Portesine.
Il volume (pp. 264, € 25) inaugura la collana «TOTALE. Adriano Spatola e altre scritture». Dopo l’edizione di Opera (che raccoglie tutte i lavori lineari e visuali del poeta) prosegue la riproposta dell’opera di Spatola, iniziata due anni fa, e si apre, con questo rinnovato progetto, un percorso verso quelle scritture che stanno al confine tra verbale e visivo o che comunque rappresentano un’oltranza del segno, proprio secondo lo spirito spatoliano e nella prospettiva antidogmatica e politicamente necessaria di una scrittura complessa.
ESTRATTI CRITICI
L’oblò: il romanzo come sublimazione
della scrittura performativa
Giovanni Fontana
Soprattutto una delle indicazioni della copertina de L’oblò, ben evidenziata in una vera e propria anticipazione delle attuali word cloud, spinge a inquadrare l’opera spatoliana come un “romanzo pop”. Del resto il suggerimento verbovisivo, dovuto al curatore della grafica del libro, proviene da quanto è scritto, verosimilmente dallo stesso Spatola, nella quarta di copertina. Lì, infatti, oltre a dichiarare la connessione diretta con «i contenuti dei
mass-media che riflettono i sistemi di valore esistenti nella società», si segnala come «[p]iù che naturale» il «riferimento a certe recenti esperienze musicali (Cage, Schnebel, Kagel), alla pittura d’assemblage e, sotto certi aspetti, alla pop-art».
La nuvola di parole, che nella corrente praticabilità di rete riassume il quadro generale delle informazioni e visualizza i concetti chiave, assegnando, su scala dimensionale, differente peso grafico in base alla frequenza di ricorrenza nel testo, qui evidenzia con un corpo tipografico maggiore la parola “pop”, come per sottolinearne l’importanza in analogia con quanto si andava facendo in queglianni nelle partiture di poesia sonora, sulla scia delle suggestioni optofonetiche futur-dada.
[…]
Lenti, macchine fotografiche e voyeurismo
intertestuale: il buco dello sguardo
nell’Oblò di Adriano Spatola
Chiara Portesine
L’oblò è un curioso manufatto, un cine-romanzo vertoviano in cui tutto, letteralmente, si trasforma in occhio – anzi, in una cavità oculare vuota su cui viene montata una lente periscopica. Un occhio culturalizzato, insomma, che riflette criticamente le strutture e le sovrastrutture del reale. Se, come scrive Francesco Muzzioli, il dispositivo dell’“oblò” funziona anzitutto come obiettivo fotografico non sarà difficile stabilire un immediato parallelismo con Il grande angolo di Giulia Niccolai, pubblicato due anni dopo nella stessa collana feltrinelliana delle «Comete». Una certa reversibilità tra i due libri si disvela proprio nella costante necessità di frapporre filtri visivi tra il soggetto e il mondo. I viaggi di Niccolai passano attraverso il setaccio prospettico di un «forte teleobiettivo» che «scatta immagini della vita» catturando sulla pellicola personaggi e scenari che vi «rimangono impressi» e invischiati come se si trattasse di carta moschicida. La voce del narratore viene a coincidere con lo sguardo del reporter, in una foto-diegesi in cui le azioni di «vedere e fotografare» costituiscono una dittologia sinonimica. Nella prosa di Spatola coesistono, invece, diverse modalità di rifrazione mediale dei referenti. L’autore non disdegna neppure alcune formulazioni convenzionali dell’alleanza tra vista e strumentazione optometrica, riscattate dall’armadio degli archetipi narrativi soltanto per essere contestate nell’atto stesso di enunciarle come postulati di verità.
[…]
Attraverso l’oblò
Francesco Muzzioli
[…]
Resta un’ultima domanda: perché l’unicità? come mai L’oblò non è stato seguito da altre prove narrative, se non un tentativo rimasto al palo? Questa rarità ha portato tra l’altro la critica sull’autore a privilegiare gli altri versanti della sua successiva multiforme opera, gli zeroglifici, la poesia sonora, la performance, ecc. La risposta ovvia che è andata così, non può bastare. Si potrebbe supporre che il trattamento del romanzo avesse raggiunto nell’Oblò un grado così radicale, così definitivo, da sconsigliare altre aggiunte, che sarebbero state inferiori (lo stesso Sanguineti, tanto prolifico in versi, farà fatica a completare la sua trilogia in prosa). Vista dall’altra parte: la prova aveva fatto toccare con mano il potere inattaccabile della forma romanzo nel mercato delle identità. Le «Comete», titolo della collana feltrinelliana ospitante, finivano dritte ai remainders (dove io stesso acquistai il mio Oblò a metà prezzo, 600 lire di allora). Forse il titolo che ho scelto per il mio saggio, Attraverso l’oblò, intendendo ovviamente l’attraversamento critico, può valere anche per l’autore che, con questo testo, ha attraversato il romanzo (come diceva proprio Sanguineti che bisognasse «attraversare l’avanguardia»). Come fosse lo smaltimento di una febbre giovanile, da parte di un Adriano ancora senza barba. Dopo di che, dopo l’esplosione sessantottina e la conseguente crisi di «Quindici», sarà prioritaria la “poesia totale” dello sciamano ironico nel suo nucleo di “resistenza alla rassegnazione” arroccato nel Mulino di Bazzano, centro autogestito e richiamo mobilitante con il suo “tam tam” rivolto alla generazione successiva.
(quarta di copertina dell’edizione originale de L’oblò, Feltrinelli, 1964)
I protagonisti di questo romanzo, quelli che si dividono la responsabilità
di tenere il passo con gli sviluppi imprevedibili (fuori del principio
di causalità) di una storia che, riproducendosi per partenogenesi, ruota
vorticosamente su se stessa e tende, per una specie di forza centrifuga,
a proiettarli nel limbo delle apparizioni non concrete; i protagonisti di
questa commedia (spezzettata in decine e decine di scene) sono fondamentalmente
tre: l’io narrante, Guglielmo (il suo alter ego) e il dott.
Pietro. Manca, si direbbe, il quarto punto cardinale, l’autore. E infatti
L’oblò è una carta geografica priva di uno dei lati, cosicché da una falla
che si apre nella diga dell’ordinata rete di meridiami e paralleli (una rete,
fra l’altro, che imprigiona il mondo) fuoriescono violentemente i materiali
eterogenei che il fiume della storia ha raccolto e ingerito durante il
suo corso.
Questi materiali fagocitati e risputati sono i contenuti dei mass-media
che riflettono i sistemi di valore esistenti nella società nella quale hanno
luogo, di modo che, con l’ostinazione cieca della macchina che messa
in moto ripete all’infinito la serie dei medesimi gesti, i valori che la società
esalta (o condanna, o tollera, o crea come bisogni artificiali) sono
coinvolti in questa lotta dei personaggi tra loro per il dominio della storia
(per la sua comprensione). Le pagine dedicate alla descrizione particolareggiata
degli strip-tease, ad esempio, riflettono coscienziosamente una
realtà esteriore (meccanica, appunto) ma profondamente simbolica, di
gesti: perché nei mass-media al livellamento dell’espressione corrisponde
un livellamento macroscopico dei contenuti in quanto, indipendentemente
dalla “forma” (sempre funzionale all’estremo), sono i contenuti in
sé che servono le necessità socio-psicologiche di un pubblico.
Più che naturale quindi un riferimento a certe recenti esperienze musicali
(Cage, Schnebel, Kagel), alla pittura d’assemblage e, sotto certi aspetti,
alla pop-art, la cui area sembra però ampliata fino a comprendere,
oltre a descrizioni macabre e ripugnanti da film dell’orrore, situazioni
erotiche di stampo fumettistico, ecc., anche, per esempio, certi toni biblici
frammentari, quali può avere nell’orecchio il lettore disattento della
Bibbia in dispense. I passaggi continui da una tecnica all’altra e l’uso del
contemporaneo, in una stessa pagina, di varie tecniche opposte, stanno
alla base del sentimento di dispersione che pervade tutto il romanzo.
L’oblò
Volume di 264 pagg., cm 13×23
a cura di Giovanni Fontana e Daniele Poletti
saggi di Giovanni Fontana, Francesco Muzzioli, Chiara Portesine
in appendice il racconto Apocolocyntosis
euro 25.00
per acquistare il libro scrivete a: info@diaforia.org
Adriano Spatola
Adriano Spatola (Sapjane, 4 maggio 1941 – Sant’Ilario d’Enza, 23 novembre 1988) è stato un poeta, editore e critico letterario italiano, è stato tra le figure di maggior rilievo nella cultura letteraria italiana della seconda parte del Novecento. La sua opera poetica e l’elaborazione del suo progetto di poesia “totale”, lo portarono ad inserirsi con autorevolezza nelle vicende delle avanguardie novecentesche, a ripensare a certi assunti del surrealismo e del dadaismo, a partecipare giovanissimo al Gruppo ’63, giungendo infine alla concezione della poesia come fatto artistico “visivo”, “gestuale”, “fonetico” oltre che letterario.