PIER LUIGI FERRO – La penna d’oca e lo stocco d’acciaio
Gian Pietro Lucini, Arcangelo Ghisleri
e i periodici repubblicani nella crisi di fine secolo
brossura, pagg. 436, euro 32,00
Edizioni Mimesis, Milano 2014 (collana “I sensi del testo”)
“All’arte, prima, alla riflessione, poi, appartiene il compito di ricondurci al vero senso delli interessi reali dell’umanità, di comunicarci con un’estetica sincera e densa le relazioni che si scambia l’animo nostro coll’animo delle cose, il legame che ricongiunge la dinamica nostra personale allo spirito del tempo; sì che quest’arte, questa riflessione, antivedono dopo d’aver osservata e assicurata la tradizione; hanno, cioè, sorpassato la consuetudine, e si trovano obbligate, davanti all’opera, alla esegesi di questa.”
[Gian Pietro Lucini – Il verso libero, p. 19]
Pier Luigi Ferro ha sempre intrapreso i sentieri della sperimentazione, sia come poeta che come critico letterario, a partire dalle prime esperienze con Adriano Spatola, per arrivare alla direzione scientifica della rivista monografica «Resine. Quaderni liguri di cultura». Questo percorso -che a livello critico si inaugura con due saggi sul Quattrocento, però- ha come costante la circumnavigazione della figura di Gian Pietro Lucini. Ferro ha seguito e approfondito la via indicata da Edoardo Sanguineti sulla rivalutazione e riconsiderazione storico-letteraria della figura di Lucini. L’operazione parte nel 1969 su I Millenni Einaudi, con il volume “Poesia del Novecento”: “dove Sanguineti indica in Lucini il primo dei moderni, riservandogli uno spazio maggiore a quello dedicato a Pascoli e D’Annunzio” (vedi intervista a P.L. Ferro, a seguire), per arrivare a “Revolverate e Nuove revolverate” (Einaudi 1975, sempre a cura di Sanguineti), libro fondamentale per la riscoperta dell’autore, che tenta di spezzare definitivamente il canone delle patrie lettere. In mezzo a queste due cuspidi furono ristampate quasi tutte le principali opere di Lucini, per i tipi di Guanda, Guida, Vallecchi, Longanesi e Ceschina tra gli altri; è necessario attendere poi gli anni 2000 (Scheiwiller nel 1995 con “La piccola Kelidonio”) per la ristampa di un’altra mandata di testi, tra cui l’importante “Libro delle figurazioni ideali” (Salerno, 2005), fino al 2008 con l’imprescindibile “Il verso libero” (Interlinea editore), per le cure e con un testo critico di Pier Luigi Ferro. Questa anastatica può essere considerata il prodromo del saggio “La penna d’oca e lo stocco d’acciaio”, uscito sul finire dell’anno passato, che rappresenta la summa degli studi di Ferro su Lucini e riprende in modo vigoroso la via di aggiornamento indicata da Sanguineti, per una serie di motivi – che in parte si possono evincere dalle stesse parole di Ferro nell’intervista- affievolitasi negli anni. A onor di cronaca nel 2010 esce per Utet un altro saggio di Ferro intorno a Lucini: “Messe nere sulla Riviera – Gian Pietro Lucini e lo scandalo Besson” e nel giugno del 2014, in occasione del centenario dalla morte, lo splendido numero monografico di Resine: “Nei giardini del Melibeo”, con un florilegio di saggi dedicati allo scrittore lariano.
“La penna d’oca e lo stocco d’acciaio” è un testo che ha come obiettivo la definitiva ricollocazione di Gian Pietro Lucini nella storia letteraria italiana e la correzione di “alcune letture che hanno trasmesso imprecisioni che era giunto il momento di correggere per evitare si consolidassero” (Pier Luigi Ferro, intervista). Tutto questo avviene nell’arco di un ponderoso lavoro di oltre quattrocento pagine, non attraverso l’analisi letteraria dell’opera o peggio con il facile e infido strumento dell’agiografia, bensì con la ricostruzione storica e documentale delle vicende politiche e letterarie di cui Lucini fu di volta in volta attore o spettatore. Questo approccio non lascia dubbi sull’importanza della figura irregolare di Lucini -che riuscì a ritagliarsi un percorso trasversale tra simbolismo, futurismo, scapigliatura e tradizione- proprio perché Ferro lascia cantare le carte, i documenti, i fatti, pazientemente analizzati e fatti precipitare in un composto solido e ben strutturato. Il libro può essere considerato un unicum della saggistica su Lucini, tanto che ci auguriamo possa diventare una tessera bibliografica che porti una ventata di novità anche nella sclerosi antologica scolastica. Il saggio è sicuramente rivolto agli addetti ai lavori, per la trattazione capillare di quel preciso momento storico, e a coloro che vogliono meglio comprendere le dinamiche letterarie e editoriali dei primi anni del ‘900. Ricchissimo di note e di precisazioni, “La penna d’oca e lo stocco d’acciaio” è il frutto di tre anni di lavoro che si concretizza in un esercizio di bella scrittura (sì, il periodare ipotattico di Ferro funziona, è inattacabile e pur trovandoci in ambiente saggistico produce persino punte di gioia fonetica), ma soprattutto ci mette in condizione di riconsiderare una volta per tutte la figura di uno scrittore che ha fatto avanguardia letteraria senza essere avanguardista, un intellettuale morale nel senso dell’approccio totalmente slegato dalle logiche di casta e di convenienza, anarchicamente lucido nella scelta di rendersi appartato attraverso l’invettiva e la privatezza. Ripercorrere Lucini significa ridimensionare alcuni aspetti del futurismo (e non soltanto dal punto di vista politico) e forse, finanche, della nostra Neoavanguardia e della sperimentazione tout court. (Daniele Poletti)
Ad arricchire questo articolo abbiamo il privilegio di presentare, il video dell’artista e poeta Giovanni Fontana “Tiro Al Bersaglio” dedicato all’opera di Gian Pietro Lucini.
Tiro Al Bersaglio
da “Revolverate” di G.P. Lucini
Progetto poetico e materiali video: Giovanni Fontana
Elaborazioni audio e video: Diego Capoccitti
Voce recitante: Giovanni Fontana
Durata: 10′ 54”
Anno: 2015
opera realizzata in occasione della presentazione del libro “La penna d’oca e lo stocco d’acciaio” di P.L. Ferro, Teatro Comunale di Chiabrera, Savona 30 gennaio 2015
Intervista a Pier Luigi Ferro
a cura di Daniele Poletti
1) Pier Luigi Ferro, il libro “La penna d’oca e lo stocco d’acciaio”, uscito per Mimesis alla fine dell’anno appena trascorso, rappresenta il frutto di tre anni di duro lavoro sui più disparati materiali luciniani; la richiesta è scontata: raccontaci la genesi e gli sviluppi di quest’opera.
La poesia e la critica di Lucini, nelle loro maggiori declinazioni, sono quasi sempre strettamente legate alla realtà e all’attualità sociale e politica, traggono alimento polemico e spunto da eventi e ricorrenze filtrando ciò alla luce di un’esperienza personale e ideologica molto stringente e articolata.
Non è un caso che quelle pagine siano state spesso affidate a periodici e quotidiani, come quelli fondati o diretti da Ghisleri su cui ho lavorato, e che Lucini sia forse la più importante, certamente la più originale firma letteraria, tra gli ultimi anni dell’Ottocento e la Prima Guerra Mondiale, della stampa repubblicana. Si può parlare di un vero e proprio journalisme poétique, tra l’altro attentissimo e aggiornato anche sul contesto europeo, francese soprattutto. Sanguineti stesso, che impostò la sua fondamentale edizione delle Revolverate fornendo un apparato molto puntuale soprattutto sotto il profilo delle occorrenze e linguistico, premetteva la necessità di approfondire il lavoro critico attraverso un’indagine nelle carte dell’archivio privato del poeta, allora più difficilmente consultabili.
Per queste ragioni il mio lavoro su Lucini, in questi anni, è andato in quella direzione, ossia storica e documentale, anche per la necessità, occorre dirlo, di correggere il tiro rispetto ad alcune letture che hanno trasmesso imprecisioni che era giunto il momento di correggere per evitare si consolidassero. Ad esempio, in una monografia su Lucini di una quindicina d’anni fa, peraltro ricca di molti spunti intelligenti e acuti, anche se un po’ condizionata, al fondo, da una certa ostilità verso il poeta, l’autore ha avuto il merito di portare il profilo di Lucini nell’ambito del repubblicanesimo intransigente, ossia alla corrente legata ad Arcangelo Ghisleri. Ma poi ne ha trattato quasi come se fosse una militanza disciplinata e organica; mentre la situazione, da un’indagine più approfondita, risulta molto più complessa e articolata, non di rado pungentemente critica. Lucini è sempre stato uno “spirito ribelle” e anarchisant estraneo a ogni gesuitica forma di “obbedienza cadaverica”, per usare sue espressioni, e insofferente nei confronti di scuole, consorterie e parrocchie, politiche o letterarie, conservatrici o sovversive che fossero. La vicenda dei suoi rapporti col movimento repubblicano ben lo dimostra, come del resto quella, più nota, con Marinetti e il Futurismo.
2) La riscoperta di Lucini effettuata da Sanguineti, con la cura di “Revolverate e Nuove revolverate” (Einaudi 1975), sottende un’identificazione del secondo con la figura luciniana del “politico prestato alla poesia”, una tipologia di intellettuale del tutto tramontata oggi, mi pare. Qual è l’importanza che può ancora rivestire oggi un poeta come Lucini?
L’antologia della poesia del Novecento inserita nella serie del Parnaso di Einaudi, dove Sanguineti indica in Lucini il primo dei moderni, riservandogli uno spazio maggiore a quello dedicato a Pascoli e D’Annunzio è il punto, antecedente di alcuni anni l’edizione della raccolta, da cui far partire la riscoperta sanguinetiana. Fu una rivalutazione polemica rispetto al canone istituzionale delle patrie lettere, non c’è dubbio, ma non infondata. Una più esplicita determinazione provocatoria ai limiti del paradosso mi sembra riguardi invece l’operazione fatta, in quel contesto, su Farfa. Per Lucini valevano e valgono ragioni ben concrete di merito. Che esse non siano accolte e registrate dipende dal fatto che ancora si confonda la poesia con la lirica, ossia con il linguaggio dell’intimità sofferta o della leggerezza estatica e dell’armonia. Ma è una concezione molto limitante, anche se per certi versi assai comoda. La poesia, compresa quella classica, è molte altre cose: basterebbe pensare a Dante e alla sua Comedia, ma forse il petrarchismo nelle sue declinazioni contemporanee è consuetudine più innocua e gradita, oggi come quasi sempre nella poesia e nella critica italiana.
A proposito di Lucini parlerei comunque di un poeta (ma anche di un critico) politico, ancor più che civile, come ama sottolineare Fausto Curi, e che la sua esclusione dalla pleiade letteraria di quel periodo si basi soprattutto su ragioni politiche, non avrei più dubbi. Se certa critica ancora storce il naso, ciò è dovuto a un fenomeno di trascinamento rispetto alle ragioni che determinarono l’espunzione di Lucini durante il ventennio nero o, magari, alle polemiche letterarie degli anni Settanta. Penso al riguardo a vecchie pagine arbasiniane recentemente rispuntate, dopo una sommaria spolverata, da un vecchio baule. Insomma, si osteggiava Lucini per colpire ciò che rappresentava (e rappresenta) Sanguineti e difendere magari posizioni di principio oggi un po’ datate; ma dopo una certa età di questioni di principio, o peggio di puntiglio, è meglio non occuparsi e parliamo comunque di revolverate malamente mirate, perché di bersagli diversi si tratta. Non farei comunque troppo vittimismo: negli ultimi sette-otto anni sono usciti, che io sappia, almeno una settantina di saggi scientifici su Lucini, si sono ristampate sue opere, un inedito come l’ Antimilitarismo è stato pubblicato addirittura in edizione a larga tiratura.
Quanto alla tua domanda: stante il fatto che poesia e letteratura siano modi dell’espressione estetica che non si generano e neppure vivono negli intermundia, che qualche rapporto con l’uomo e le sue società lo mantengono, che, infine, la politica tali società si propone appunto di organizzare seguendo interessi ben concreti, a me pare del tutto ovvio che gli intelletti e i loro, diciamo così, detentori alla vita dell’uomo, alla sua espressione sociale e quindi alla politica si rivolgano, assumendosene tutti i rischi del caso.
Se ciò oggi non avviene, o appare non avvenire, preferisco pensare sia dovuto, più che a una trahison des clercs realizzata per forza d’inerzia – così direi, rovesciando un po’ Benda – semplicemente a una necessità compiutamente ed efficacemente realizzata dei poteri politici ed economici, a un orientamento complessivo dell’industria e delle istituzioni culturali. Tale orientamento mi pare venga poi realizzato mantenendo ancora in vita l’apparenza, sui mezzi di comunicazione, di una funzione intellettuale e di analisi, magari però affidandola a figure di tenue consistenza: ciò perché, evidentemente, è ancora necessario fornire a una fascia di pubblico mid-cult e, bene o male, massivamente scolarizzata, quella stessa che frequenta le grandi mostre artistiche, la sensazione che la cultura e la letteratura esistano, contino sempre qualcosa e, soprattutto, siano loro facilmente accessibili.
Lucini è una figura importante non solo per il valore intrinseco della sua opera letteraria, assai rilevante, in primo luogo perché rappresenta con straordinaria ricchezza capacità di penetrazione e intelligenza, più di qualunque altro poeta, una delicatissima fase storica del nostro Paese, in cui si giocano molte questioni ancora vive e irrisolte ai giorni nostri, ma anche perché è uno scrittore che preferisce parlarci della sofferenza sociale e dell’ingiustizia, più che delle malinconie di un’anima sensibile. Tra l’altro innovando il linguaggio e gli strumenti della poesia e della critica, con grande consapevolezza teorica, compiutamente espressa.
Lucini fu costretto a sopportare per tutta la vita le conseguenze di una terribile malattia allora incurabile, la tubercolosi ossea, che lo costrinse a sopportare atroci sofferenze, un’amputazione, raschiamenti chirurgici e simili. L’atto stesso di scrivere, per il male che gli attanagliava ormai il braccio destro e la mano, gli provocava dolore. Di ciò si trova traccia nelle sue lettere private, naturalmente, e nella sua calligrafia, quasi nulla nella sua poesia e nella sua critica.
Ma a molti sembra più importante, ed è davvero una strana cosa, leggere, studiare, porre in luce poeti che perlopiù si sono spesi a descriverci il loro preteso male di vivere, vale a dire le loro private e inoffensive malinconie borghesi, o a rivelarci, magari in maniera criptica ma altamente suggestiva, che la vita è breve e che prima o poi dovranno (e dovremo, a quanto pare tutti) morire. Una gran scoperta, non c’è che dire.
3) […] “una letteratura di massa, per il popolo e non popolare, o adattata all’orizzonte dei travet e dei ceti medi cittadini, espressione di una volontà di falsificazione, di compensazione emotiva o fantastica, strumento funzionale all’impoverimento e al controllo politico delle coscienze” […](pag.34) Questo è quanto costituirà l’obiettivo ultimo della critica letteraria luciniana. Dalla crisi di fine secolo e dei primi del ‘900 al 2014, passando per la neoavanguardia, non sembra che le cose siano cambiate di molto, che ne pensi?
Ne penso che allora, ossia ai tempi di Lucini, in cui in Italia il 70% della popolazione era totalmente analfabeta, in certe regioni addirittura oltre il 90%, la diffusione di una letteratura di genere, facilmente commestibile, traeva in fondo una sua giustificazione pedagogica dal contesto e aveva, per quanto detestabile, qualche maggior ragione di fronte a una platea popolare che andava urgentemente istruita, anche a scapito della cultura orale e delle tradizioni folkloriche. Oggi, che non abbiamo più popolo ma solo consumatori, e presto, se le cose vanno avanti così, neppure quelli, la letteratura di massa somministrata al pubblico si confronta con l’analfabetismo funzionale. Cioè si adegua all’idea che non debba far pensare, cosa faticosa, ma solo svagare e divertire, senza impegnare troppo la mente e il linguaggio. Tutto questo fa comodo, naturalmente. Il guaio, rispetto ai tempi di Lucini, è che anche la classe dominante è diventata assai più ignorante.
4) I problemi della politica diventavano problemi morali e di conseguenza, per artisti e scrittori, problemi estetici. Questa gradualità sembra del tutto assente nell’indistinzione odierna, a tuo avviso di cosa sono portavoce oggi la poesia e la letteratura? È ancora possibile secondo te una poesia civile?
Per ciò che concerne la poesia, io direi senza mezzi termini che è quasi completamente sparita dall’orizzonte letterario. E’ diventata un po’ un vezzo, un’ambizione di persone appassionate che “fanno” i poeti senza esserlo affatto. Per gli editori che contano il libro di poesia è un po’ come la cravatta: non serve a nulla e non dà alcun ritorno, ma sta bene, quindi ogni tanto bisogna metterla. L’unica poesia che “funziona” è quella che si collega al circuito di vendita generato da un sistema scolastico da sempre poco attento all’arte e alla cultura contemporanea, oggi completamente soffocato e intontito dagli adempimenti burocratici, dalle angustie del didattichese e dai problemi che la politica ministeriale continua a produrre sul sistema con l’alibi di pretese riforme che seguono ormai da un ventennio la logica esclusiva di un impoverimento.
Insomma, visto che mi parli anche di problemi etici e morali, direi che la poesia che va per la maggiore oggi in Italia, quando non sia quella istituzionale, è quasi sempre la manifestazione di una strana forma dilettantistica di narcisismo a contenuto depressivo.
In Italia ci sono alcune migliaia di individui che scrivono versi da loro stessi poi stampati: in ciò soprattutto consiste oggi, in meri termini quantitativi e dunque sociologicamente significativi, la poesia in Italia. Nella quasi totalità dei casi sarebbe bene non lo facessero e si dedicassero a qualche altra più soddisfacente attività, per se stessi e gli altri, utile a scacciare quelli che di solito chiamano i loro “fantasmi interiori”, anche perché sviluppano, si fa per dire, in maniera confusa vaghe idee e sensazioni che hanno in mente o rimbalzano nella cavità del loro cranio, pensando che sia sufficiente dar mostra di un linguaggio ermetizzante, tropico, condito da qualche anastrofe e simili vecchi arnesi per manifestarsi poeta.
La tiratura di un libro di poesia, di poesia contemporanea intendo dire, affidato anche a un editore non infimo, è ben inferiore al numero complessivo dei poetanti di tal genere: quando va bene si aggira intorno al migliaio di copie, da quanto si legge sulle indagini statistiche al riguardo. Se non ricordo male il rapporto è di uno a quindici, cioè i versificanti sono molti di più dei previsti lettori di un decente libro di poesia, tra cui si dovrebbe comprendere, in un contesto sano, anche un congruo numero di onesti non versificanti.
Cardarelli scrisse che è sufficiente i poeti si intendano tra loro: direi dunque che oggi siamo ben sotto tale soglia, dal momento che neppure si leggono. Dico questo con tutta l’esasperazione del caso ma senza alcun compiacimento apocalittico o millenaristico. Tra l’altro non son neppure considerazioni nuove.
Direi dunque che il problema è soprattutto se sia possibile la poesia tout-court. Rispondendo di sì, e aggiungendo come tale operazione valga solo nel caso acquisti un senso diverso da quelli sopra descritti, rideterminandone cioè linguaggio e contesti, ne deriverebbe che non solo la poesia civile sia possibile, ma direi inevitabile. Sarebbe anche opportuna una poesia politica, ma bisognerebbe che prima politica ci fosse, in Italia.
5) Gian Pietro Lucini può essere considerato uno sperimentatore, un avanguardista?
Lucini è stato senz’altro uno sperimentatore, e di livello europeo, come scriveva Sanguineti: il suo lavoro sul verso libero, sull’apertura ad ampio raggio del lessico tradizionale della poesia, il suo plurilinguismo, la sua attenzione alle nuove poetiche, ma anche il modo in cui ha interpretato il giornalismo culturale, la critica va tutto in questa direzione. Più complesso rispondere al secondo punto, anche perché il termine e il concetto di avanguardia subiscono diverse determinazioni a seconda del periodo e dello specifico movimento cui ci si riferisce. Una cosa fu il futurismo, altra cosa il surrealismo, cosa ancor più diversa i novissimi e la neoavanguardia.
Lucini nella fase precedente la fondazione del futurismo veniva identificato come una sorta di capofila tra i giovani poeti del simbolismo e venne in tale veste più o meno esplicitamente attaccato dai vari Ragusa-Moleti, Panzacchi e dai molti recensori anonimi che si opponevano, sulla scia di Graf e di Nordau, interpretando le ragioni della critica accademica e del pubblico benpensante, alla nuova scuola europea, accusata di obscurisme, astruseria e di praticare un’arte degenerata, estranea alle tradizioni italiane. Un’opposizione massiccia e diffusa che di fatto impedì in Italia un vero confronto con le idee che giravano soprattutto a Parigi. In quella fase Lucini pensò di “chiamare le scolte della compagnia” ossia di organizzare i giovani poeti per lanciare un’offensiva culturale a difesa della nuova poetica. Parallelamente approfondì una posizione teorica molto articolata e aperta, che sviluppò anche posteriormente. Cercò perfino di mettere in campo operazioni per épater le bourgeois che frequentava i teatri dove si rappresentavano pochades e facili drammi di impostazione molto convenzionale. Si evince chiaramente dai documenti che ho pubblicato nel mio saggio, ad esempio, circa il tentativo di far rappresentare il Monologo di Florindo al Teatro Paganini di Genova, facendolo interpretare da Luigi Carini.
Se Lucini aderisce al futurismo, pur con molte riserve sul Manifesto, nel cui testo si possono però chiaramente leggere concetti già espressi nel Verso Libero, lo fa forse anche perché le reazioni negative all’iniziativa marinettiana prendevano talvolta tono e argomenti assai simili all’opposizione nei confronti del simbolismo di qualche anno prima.
Se però assumiamo il termine avanguardia nell’accezione, diciamo così, militare da cui deriva, ossia nel senso dell’azione di una minoranza organizzata e che si muove secondo logiche sistematiche di sabotaggio orientate a fini estetici o di promozione programmaticamente definiti, Lucini non fu un avanguardista, perché in lui, dal 1898 soprattutto, prevalevano una componente di anarchismo stirneriano e sentimenti fortissimi di autonomia, che gli impedivano di aderire fino in fondo ad alcun movimento. Anche la sua concezione letteraria era di tipo fenomenalista, organicista e mal si prestava ad adattarsi ad un programma. Se invece si intenda il termine in senso più ampio e si guardi a quella avanguardia “aurea”, che parte da Baudelaire e di cui scrive Sanguineti nella premessa all’antologia del 1969, allora tale etichettatura potrebbe essere accettata.
6) Lucini fu un poeta che lambì le diverse correnti letterarie dell’epoca (simbolismo, scapigliatura e futurismo) senza mai appartenere a nessuna di esse: quali sono i reali rapporti con queste espressività?
In parte credo di avere già risposto alla tua domanda, che meriterebbe davvero una trattazione più ampia, vista la sua portata. Aggiungo solo che le ragioni del simbolismo europeo trovano nell’opera teorica di Lucini l’elaborazione più ampia, originale e profonda che si sia fornita ai tempi in Italia. È abbastanza incongruo come nella manualistica si faccia esclusivo riferimento a D’Annunzio e Pascoli parlando dell’influenza di quel movimento in Italia, e che Il Fanciullino pascoliano sia rappresentato magari come il documento di poetica più significativo a riguardo. Paragonandolo a testi come l’Epistola Apologetica, al Pro Symbolo e allo stesso Verso Libero risulta evidente come le posizioni di Lucini siano nettamente le più aggiornate e intelligenti. Dunque si è trattato non di un’occasionale frequentazione, ma di un rapporto più profondo, che si è scontrato da una parte con le ostilità accademiche e del pubblico, dall’altra con l’esaurimento di quelle poetiche nel contesto europeo e con la contemporanea urgenza di una poesia diversa, nel quadro drammatico generato in Italia dal maggio di sangue milanese del 1898 e dal tentativo di svolta autoritaria nell’Italia umbertina. Una poesia di denuncia e intervento che sarà compiutamente realizzata nelle Revolverate.
Quanto alla Scapigliatura del 1860-1875, come scrive Lucini nella sua Autobiografia, fu “amica” del padre Ferdinando e ne frequentava il salotto: Emilio Praga, Rovani, gli scrittori “violenti” dell’“indomito repubblicano” «Gazzettino rosa», come Achille Bizzoni, Cesare Tronconi, Fabrizio Galli, anch’essi erano di casa nell’appartamento di via San Simone dove nacque il poeta. Lucini conservava “vaghe ricordanze” di quelle frequentazioni, cui assistette bambino. Del resto, Felice Cameroni, amico e collega del padre, che fu il vero mèntore letterario di Lucini, proveniva da quell’ambiente. Anche l’amicizia con Dossi, legato al movimento milanese, può portare a sottolineare tale legame, anche se si colloca tutta ormai nel Novecento. Tuttavia l’attività letteraria di Lucini, che si sviluppa a partire dai tardi anni Ottanta è successiva all’arco cronologico in cui propriamente si può inscrivere tale movimento. L’interpretazione dell’opera di Lucini come ”caso estremo e piuttosto quatriduano, di scapigliatura in decomposizione” è una forzatura che non va davvero più accettata. Qualche influenza di lì proviene, penso a certo gusto per l’invettiva e per l’orrido, ma in questo caso sì, davvero Lucini ha solo lambito quel movimento.
7) Con “Il verso libero”, summa saggistica di Lucini, si afferma lucidamente che non è la “tradizione” che andava
rifiutata, ma la “consuetudine”, che coincideva con la banalizzazione dell’arte e il suo carattere reazionario. Una tesi originalissima per l’epoca, che conferì sicuramente all’autore una posizione appartata. Quali sono oggi a tuo avviso le modalità per svecchiare e fare ricerca nella materia poetica?
Penso che la prima urgenza sia quella di ricostruire un circuito socialmente funzionale della poesia, usando gli strumenti che le strutture della comunicazione per altri fini e altre ragioni producono e mettono a disposizione. Questo secondo una strategia di esplicita demistificazione e di hackeraggio linguistico, soprattutto, che va mantenuta e pervicacemente praticata. In tale direzione mi pare occorra dunque lavorare, ancora e più a fondo, su una concezione aggiornata che si confronti con l’oralità, mediata o diretta, ossia con l’esecuzione pubblica del testo, e con la sua dimensione iconica e visiva, un campo dove i nuovi strumenti digitali offrono sovente nuove e interessanti opportunità di sabotaggio. Parlo ancora di oralità diretta perché penso nulla vieti di seguire anche procedure a basso contenuto tecnologico, che sono poi quelle meno suscettibili di controllo, come ci insegna Totò Riina – che poeta non è, siamo d’accordo – coi suoi pizzini.
Per ciò che concerne la pratica in angello cum libello, da moderni devoti, di una poesia affidata semplicemente alle pagine bianche di una plaquette tipografica destinata a una solitaria e silenziosa meditazione, vista la situazione, direi che ha fatto il suo tempo: l’unica strada che sia sensato percorrere è quella del libro oggetto, a tiratura limitatissima, con significative interpretazioni delle opportunità grafiche, calligrafiche e visuali del caso, che giustifichino un simile investimento.
Trovo sia interessante, direi quasi ecologica, anche l’idea di costruire il discorso poetico partendo dai detriti, dalle macerie o, se si preferisce, dalle rovine, che qualche fascino e occasione estetica hanno in fondo sempre prodotto, della tradizione letteraria. Non so dire se così sarà possibile intercettare l’attenzione di qualche turista della poesia. Al limite, se tali rovine – ma davvero è forse il caso di parlare ormai, con Augé, di macerie – non fossero immediatamente disponibili, si potranno pure ancora produrre, smontando quel che resta e ricomponendolo malamente, se possibile, come fa un enfant gâté pentito che provi a rimettere insieme un costoso giocattolo lucido e colorato che si è appena divertito a sfasciare gettandolo per terra o scagliandolo contro il muro della sua cameretta.
Chissà, forse neppure di sabotaggio si tratterebbe ormai, ma di un adeguamento e dell’espressione tardiva di una nevrosi di riparazione rispetto a logiche dominanti che tali macerie con ammirevole solerzia ed esibito, ottimistico entusiasmo producono nel paesaggio civile dell’Italia di oggi.
8) A pag. 110 del libro, con riferimento a “La nenia al Bimbo”, parli di un’erosione di quella che si potrebbe definire una “poetica dell’enunciato”, a vantaggio di una “poetica dell’enunciazione”, per cui è già possibile intravedere una delle caratteristiche dominanti dell’avanguardia. Puoi approfondire maggiormente questo interessante aspetto della ricerca luciniana?
Si tratta, in realtà, della riflessione su un passaggio del fondamentale saggio di Alberto Bertoni a proposito del verso libero, riferita a un testo luciniano che innesca, ancora al suo interno, una mise en scéne, ossia un’azione drammatica molto complessa, nel senso tecnico del termine, presentata come una delle vie percorribili per inceppare la funzione lirica e patetica del testo. Ciò significa spostare i pesi dall’enunciato all’enunciazione, rinunciando all’dea di una poesia come encomio, più o meno diretto più o meno travestito, della realtà enunciata. A una poesia cioè, come laude, tipica del dannunzianesimo e della poesia cortigiana di tutti i tempi e soprattutto dell’età gentilizia. A questa idea, va detto, in fondo Marinetti non rinunciava, limitandosi a sostituire l’oggetto del suo encomio, che diventa la modernità, la meccanica, acriticamente assunta. Mentre Lucini, che sorpassa il futurismo così come la consuetudine, rimane, con le sue inevitabili contraddizioni che orgogliosamente rivendica e anzi assume come tratto costitutivo e vitale, un poeta più ideologicamente consapevole e sovversivo. Esiste naturalmente la poesia delle Commemorazioni, ma rivolta nella direzione dell’opposizione ai valori politicamente dominanti tra quella che Lucini chiamava la gente-per-bene. Quindi di un elogio eversivo e provocatorio, destabilizzante.
Mi fa piacere tirare in ballo, concludendo, la Nenia perché si tratta appunto dell’enunciazione di un bardassa, ossia di un saltimbanco girovago, un drop-out si direbbe oggi, a fronte di un pubblico muto e inerte, sostanzialmente assente, di benpensanti. Il che forse non è del tutto estraneo a quanto dicevamo prima circa la poesia odierna e ci dimostra quanto sia ancora utile oggi confrontarci con questo straordinario poeta.
Pier Luigi Ferro, nato a Varazze nel 1959 si è laureato in Lettere Moderne all’Università di Genova e insegna al liceo classico di Savona. Ha esordito come critico con due saggi sul Quattrocento pubblicati su «La Rassegna della Letteratura italiana», ed «Esperienze Letterarie». Entrato in rapporti con Adriano Spatola e col gruppo di “Tam Tam”, ha pubblicato nelle edizioni di quella rivista la plaquette di versi Librìdo (1984, prefazione di Adriano Spatola) cui, nel 1992, è seguita Figure per il coro (Hetea, Alatri, prefazione di Raffaele Manica). Ha collaborato con testi creativi e recensioni a diverse riviste nell’area della sperimentazione letteraria tra gli anni Ottanta e Novanta, come “Tracce”, “Terra del Fuoco”, “Risvolti”, “L’involucro” e altre. Ha curato i volumi Adriano Spatola poeta totale(Costa&Nolan, Genova, 1992), che raccoglieva i contributi di un convegno, da lui stesso organizzato due anni prima in Liguria, accompagnandolo con una mostra Apparenze.Intersezioni verbovisive per Adriano Spatola. In viaggio con le parole, realizzata insieme a Giovanni Fontana. Dal 1994 ha collaborato al mensile fiorentino di politica e cultura «Il Ponte», con una serie di saggi, in parte raccolti in Attestature. La letteratura italiana tra Novecento e nuovo millennio, (Il Ponte, Firenze, 2002). Ha quindi curato i volumi Gli innocenti di Guido Seborga (Sabatelli, Savona, 2006); Gian Franco Venè giornalista scrittore saggista (Sabatelli, Savona, 2007); la ristampa de Il Verso Libero di Gian Pietro Lucini, (Interlinea, Novara, 2008) e del Poema del Candore Negro di Farfa (Milano, 2009), nei quali sono contenuti suoi saggi. Nel 2010 ha pubblicato Messe nere sulla Riviera. Gian Pietro Lucini e lo scandalo Besson (Utet, Torino), con prefazione di Edoardo Sanguineti. Ha realizzato numeri monografici del trimestrale «Resine. Quaderni liguri di cultura», di cui è redattore e direttore scientifico, dedicati al futurismo (Noi miliardari della fantasia, n.119-121, 2009), alla letteratura simbolista (Prima del divenire, n.113-114, 2007), a Nanni Balestrini (Materiali immagini parole per Nanni Balestrini, n.132-133, 2012), Germano Lombardi (L’occhio di Germano Lombardi, n.125-126, 2010) Giancarlo Marmori (Giancarlo Marmori: arte e scrittura, n.131, 2012) e a Gian Pietro Lucini (Nei giardini del Melibeo, n. 137-140, 2014, in collaborazione con Manuela Manfredini). Per la stessa rivista ha anche curato i numeri tematici Scarti rifiuti avanzi (n.117-118, 2008), con testi, tra gli altri, di Marcello Carlino, Gio Ferri, Maurizio Cucchi, Andrea Zanzotto, Andrea Camilleri, Gillo Dorfles, Gilberto Finzi, Tiziano Rossi, Giovanni Fontana nonché Sopra lo stato presente (n.128-129, 2011), con testi di Gianni D’Elia, Eugenio De Signoribus, Franco Loi, Franco Buffoni, , Roberto Roversi, Mario Lunetta, Silvio Ramat, Jolanda Insana, Sandro Bajini, Gian Carlo Caselli e Adriano Sansa). Entrambi i numero comprendevano un’ampia seziona di tavole verbovisive originali (Cimino, Fiore, Roffi, Xerra, Blaine, Andolcetti, Noel ecc.). Nel 2014 ha composto un trittico di poesie per la cartella di Gian Paolo Roffi Sintassi dei frammenti (Campanotto, Udine); un suo Acrostichiastico è stato inoltre compreso in Totilogia.Involatura sulla poesia di Gianni Toti (Diaforia). La sua più recente pubblicazione è il saggio monografico La penna d’oca e lo stocco d’acciaio. Gian Pietro Lucini, Arcangelo Ghisleri e i periodici repubblicani nella crisi di fine secolo (Mimesis, Milano, 2014). Ha collaborato, insieme a Manuela Manfredini, all’organizzazione del convegno nazionale di studi dedicato a Lucini nel centenario della morte (Gian Pietro Lucini: poeta simbolista tra Risorgimento e Grande Guerra, Como, 21-22 novembre 2014).
Giovanni Fontana, architetto, poeta e performer è uno dei più noti operatori europei nel campo della poesia sonora e visiva. Teorico della poesia epigenetica, è anche autore di romanzi e prose, come Tarocco Meccanico (Altri Termini, 1990) e Chorus (Manni, 2000). Il suo primo libro è il testo-partitura Radio/Dramma (Geiger, 1977), l’ultimo Déchets (Dernier Télégramme, 2014). Con Questioni di scarti (Polìmata, 2012) ha vinto il Premio Feronia 2013. Ha proposto performance di poesia sonora in festival italiani e stranieri, toccando le più importanti capitali del mondo: da Parigi a New York, da Tokyo a Shanghai. Ha pubblicato saggi sulla poesia d’azione e sonora, tra i quali La voce in movimento (Harta performing, 2003 – con CD) e Poesia della voce e del gesto (Sometti, 2004). Ha curato per “Il Verri” l’antologia di poesia sonora Verbivocovisual (2004). Ha fondato la rivista di poetiche intermediali “La Taverna di Auerbach” e l’audiorivista “Momo”. È direttore di “Territori”, rivista di architettura e altri linguaggi. La sua attività creativa è ripercorsa nella monografia Testi e pre-testi (Fondazione Berardelli, Brescia, 2009). Ha scritto testi per svariati musicisti, tra i quali Ennio Morricone, Roman Vlad, Umberto Petrin, Antonio Poce, Luca Salvadori, ecc. È autore del testo di Elegia per l’Italia, opera composta da Ennio Morricone per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, eseguita per la prima volta in occasione della festa del primo maggio 2011 nel concerto di Piazza San Giovanni a Roma, con l’Orchestra Roma Sinfonietta e il Nuovo Coro Lirico Sinfonico Romano.
Diego Capoccitti, si è laureato in Ingegneria a “La Sapienza” di Roma nel 2000 e in musica elettronica al conservatorio di Frosinone nel 2014, dove attualmente sta studiando composizione digitale audiovisiva, con Alessandro Cipriani, Antonino Chiaramonte, Maurizio Argenteri e Fabio Venturi. Nel 2011 ha vinto con la composizione Dall’alto dei giorni immobili in premio «Sincronie Remix 2011» e nel 2014 con Epithymetikon il premio internazionale «Marzio Rosi» del conservatorio «Perosi» di Campobasso nonché il «Best Music Award» alla sezione europea del quarantesimo International Computer Music Conference, il più importante evento mondiale dedicato alla musica elettronica e alla ricerca audiovisiva, svoltosi ad Atene a settembre.
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