Fernando Mastropasqua – In assenza di Amleto

Sul finire del 2015 ancora molte cose da pubblicare che scivoleranno ai primi mesi del 2016; intanto in attesa della video intervista a Peter Carravetta e del nostro nuovo libro, plaquette di Nanni Balestrini con un testo critico di Fausto Curi, pubblichiamo un interessantissimo saggio breve del Professor Fernando Mastropasqua su un frammento preciso dell’Amleto shakespereano, quello in cui Amleto non è presente perché spedito in Inghilterra da Re Claudio con l’intento di farlo uccidere.

Il lavoro esegetico che Mastropasqua ha intrapreso sull’opera di Shakespeare (in particolare su Amleto, riuscendo a creare una tavola periodica degli elementi applicabile a tutta l’Opera come sistema codificato e codificabile) durante gli anni ’90, presso l’Università di Pisa, ha un’importanza capitale nella letteratura critica sul Bardo. La vera novità interpretativa di Mastropasqua -che parrebbe quanto meno improbabile, a fronte delle migliaia di pubblicazioni su Shakespeare- sta nel considerare le tragedie e le commedie testi teatrali prima che letterari o piuttosto nell’ affrontare questi due aspetti come inscindibili.
Può sembrare un’ovvietà, ma spesso le analisi dei testi shakespereani rimangono sulla superficie narratologica e semantica, che pure è importante, ma solo se calata nella tecnica della rappresentazione teatrale elisabettiana. Questo percorso estremamente suggestivo, che si fa carico di una ricerca capillare su ogni singolo vocabolo e comparativa sulle diverse versioni di un’opera, porta a risultati sorprendenti e ci mostra il testo nella sua stratificazione di significati, un vero e proprio palinsesto che ci fa conoscere l’intrinseco più che lo svolgimento dei fatti. Vedere con occhi nuovi Amleto significa esperire un lavoro ermeneutico che si espande giocoforza dall’ambito letterario (semantica, fonologia, etimologia) alla antropologia, dalla storia al folklore, dalla cultura enciclopedica medievale e rinascimentale fino all’arte, all’arte della memoria e alla scenotecnica.

Questo breve saggio che presentiamo è la porzione di un lavoro ben più ampio che speriamo di pubblicare in futuro in volume.

Qui potete scaricare in pdf la porzione del testo di Amleto che viene analizzata, nella prima redazione Q1.

 

IN ASSENZA DI AMLETO
Scene XII-XV del I in-quarto dell’Amleto di Shakespeare

di Fernando Mastropasqua

 

Le tenebre della politica

    Dopo la morte di Corambis, alla fine della scena XI (142-159) del I in-quarto edito nel 1603 (Q1) [1], Amleto si avvia a una morte per acqua. Esiliato dal Re in Inghilterra, scortato da Rossencraft e Gilderstone, alla stregua dei folli, dei malati, degli indesiderati, viene imbarcato su una nave [2], il cui porto è la sua decapitazione. Rossencraft e Gilderstone hanno in consegna una lettera per il Re d’Inghilterra, nella quale il Re di Danimarca gli ordina di giustiziare il nipote. Le cose andranno diversamente. Amleto scoprirà la lettera e, sostituito il proprio nome con quelli dei due lord-sicari che lo accompagnano, la sigillerà nuovamente: i due compari moriranno al posto suo. In modo fortunoso, che il I in-quarto non chiarisce, il principe riuscirà a tornare in Danimarca, in tempo per assistere ai funerali di Ofelia. La scena XVI si apre con i lazzi dei due clown-becchini che stanno preparando la fossa per Ofelia, misteriosamente annegata. Lei realmente morta per acqua.

Fig. 1 – Sebastian Brant “La nave dei folli” XV sec.

    Una nave approntata a condurre chi vi sale verso un destino fatale (il naufragio o l’assassinio all’approdo) rievocava in scena il fantasma delle navi dei folli (fig.1) con il loro carico di disperati violentemente espulsi dalla società che appestavano con la loro diversità. Le tenebre della politica non si sono diradate, se anche lo spettatore di oggi non può fare a meno di confondere la nave del principe arrestato e allontanato dalla corte con più recenti navi dei folli che continuano a solcare i nostri mari con altri nomi ma con gli stessi scopi, che siano le zattere di fortuna dei boat-people o i gommoni dei profughi o gli scafi malamente rappezzati  che trasportano una umanità dolente di cui ci si vuole liberare, un surplus di vite da abbandonare alle acque, come le arance lasciate marcire nei troppo copiosi frutteti di Sicilia.

   Morire per acqua è il sintomo della violenza politica che regna in Danimarca ed è l’apertura e il finale dell’azione nelle scene in esame.

   Mentre Fortenbrasse, principe di Norvegia, sbarca con un esercito sulle coste, una nave salpa dalle stesse coste per liberare il regno da quel principe scomodo che ha osato denunciare l’usurpazione del trono da parte dello zio, assassino del padre e sposo della madre, complice e amante. “Una volta morto lui, solo allora il nostro stato sarà davvero libero.” sospira il Re (XI, 159). E non si è ancora spenta l’eco di queste parole che in scena irrompe Fortenbrasse con l’esercito invasore, ufficialmente per transitare sulle terre danesi al fine di aggredire la Polonia, ma con la ferma rivendicazione di quelle terre. Il Re spedisce a morte  il ‘pericoloso’ nipote e apre le porte a un esercito nemico che metterà fine alla libertà del suo popolo. La scena XII si apre con l’immagine della persecuzione contro i folli, i diversi, i ribelli, gli assetati di giustizia, abbandonati alla furia del mare, di contro a quella di rozzi conquistatori che vengono accolti amichevolmente. Il folle Amleto e il politico Fortenbrasse sono ironicamente messi a confronto. Shakespeare con grande sapienza drammatica concluderà il dramma con l’elogio funebre del vincitore Fortenbrasse al cadavere del  vinto Amleto.

   Dalla XII alla XV scena si svolge dunque quella parte del testo in cui manca la presenza di Amleto, esiliato e condannato a morte. Questa sequenza è una delle invenzioni più felici del dramma. Nonostante la brevità contiene un succedersi tumultuoso di eventi: la congiura del Re, i timori della Regina, il ritorno di Learte, lo sbarco delle truppe norvegesi, la pazzia e la morte di Ofelia. La situazione generale del regno di Danimarca appare molto complessa ed estremamente fragile. Tanto più che all’aggressione motivata dalle pretese della Norvegia sulla Danimarca si aggiunge il rischio di una guerra civile, in seguito alla rivolta fomentata e guidata da Learte per destituire l’attuale sovrano.  Di fronte a questi gravi pericoli per lo stato la cecità politica del Re è assoluta: sottovaluta l’attraversamento delle truppe norvegesi sul proprio territorio e considera la sollevazione di Learte un problema già superato, dato che Learte vuole la testa di Amleto, e quella, per il Re, è già caduta. Quando scoprirà che Amleto è ancora vivo non troverà di meglio che ordire una nuova congiura con la complicità dello stesso Learte. Gli riuscirà, ma perderà la moglie, il regno e la vita.

La dolente purificazione

   Nell’Amleto di Shakespeare la tipologia del vendicatore, consueta nella drammaturgia elisabettiana, appartiene al personaggio di Learte, mentre Amleto, che rifiuta di lasciarsi invischiare nella catena del delitto, opera perché i propri nemici cadano nella trappola da loro stessi ordita, come Rossencraft e Gilderstone che muoiono a causa del messaggio di morte di cui sono portatori, astutamente manipolato da Amleto.  L’unico omicidio per mano sua [3], quello di Corambis, nascosto dietro l’arazzo al posto del Re, durante il colloquio con la madre, rientra nella stessa logica. Infatti, sostituendosi al Re, l’arazzo diviene la trappola in cui il vecchio cortigiano s’impiglia.

     A differenza del fratello Learte Ofelia, ancora più ferita perché l’assassino è il principe amato, alla vendetta preferisce una più mite e più tragica risposta, dando vita a due piccoli riti [4]: il compianto per il padre e un  richiamo alla primavera che avrebbe dovuto dissipare le tenebre invernali in cui la malvagità ha trascinato la corte danese. Ma il rito per essere efficace ha bisogno di un sacrificio. Ad immolarsi è la fanciulla stessa: coperta di fiori e appesantita dalle vesti annega in un ruscello, mentre continua a cantare vecchie canzoni. Purtroppo il gesto che avrebbe dovuto purificare la corte dalle tenebre della politica si spegne nella dolce malinconia della vittima.

Le due entrate di Ofelia [XIII, 14-41; 68-106]

      La  prima entrata contiene il lamento per la morte di Corambis. La stanza iniziale del canto si rivolge all’assassino svagato, a quell’innamorato che ha tradito le sue promesse d’amore, ad Amleto. Il primo verso “Come riconoscerò il tuo amore, quello vero?” (“How should I your true love know?”) è tratto dalla Ballata di Walshingham dedicata al tradizionale pellegrinaggio al Santuario di Nostra Signora di Walshingham (Norfolk) [5]. Canta l’innamorato come pellegrino, condizione ribadita dalla presenza della conchiglia, dei sandali e del bastone, tipici di chi si reca al santuario di  San Giacomo di Compostela. Nell’Iconologia di Cesare Ripa il pellegrino è icona dell’Esilio: “Huomo in habito di Pellegrino, che con la destra mano tiene un bordone, & con la sinistra ha un falcone in pugno. Due Esilij sono, un publico, e l’altro privato, e il pubblico è quando l’huomo, o per colpa, o per sospetto, è bandito dal Principe o dalla Repubblica & condannato a viver fuor di patria perpetuo, o a tempo. Il privato è quando l’huomo volontariamente e per qualche accidente si elegge di vivere e morire fuor di patria, senza esserne cacciato, che ciò significa l’habito del Pellegrino, & il bordone. Et per il pubblico lo dinota il Falcone con i getti (laccetti di cuoio) alli piedi” (fig.2) [6]. Cesare Ripa distingue tra esilio per bando o per scelta volontaria. La mancata presenza del falcone nella descrizione di Ofelia, denota quella di Amleto come decisione spontanea. In realtà Amleto è stato condannato a morte, ma è particolare che Ofelia non può conoscere. Immagina che egli, disperato per essere stato involontaria causa della morte del padre,  si sia allontanato temendo per la propria vita.

Fig. 2 - Cesare Ripa "Esilio" XVI sec.
Fig. 2 – Cesare Ripa “Esilio” XVI sec.

   Le stanze  successive sono dedicate al ricordo del padre morto. Anche in questo caso Ofelia si ispira a ballate popolari e lamenti tradizionali [7]. Antichissimo è il costume di adornare di fiori il corpo del morto, disposti sul cadavere o addirittura cuciti nei tessuti che lo avvolgono [8]. Mettere una zolla di terra erbosa sotto la testa del morto era tipico della sepoltura del tempo. Nella Ballata della morte di Robin Hood Robin morente prega di appoggiargli la testa sopra una zolla d’erba [9].

     Nella seconda entrata la fanciulla porge ai presenti fiori e ramicelli. La distribuzione gentile di fiori da parte di una ragazza ripete la consuetudine, nei riti primaverili e nelle feste di maggio, di donne agghindate con ghirlande floreali che offrono fiori agli altri partecipanti e ne decorano le case. Quali sono i rametti di piante e i fiori che distribuisce Ofelia? E hanno un significato? Tenendo presente che in ambito popolare i significati possono essere diversi, e a volte contraddittori,  e accogliendo le tesi di Simon Augustine Blackmore [10], possiamo supporre che la ruta simboleggi il pentimento, dato che era costume delle ragazze immergerne un rametto nell’acquasantiera per impetrare la benevolenza divina, perciò ‘erba della grazia’, e Ofelia ne tiene anche per sé. Il suggerimento ad appuntarla diversamente nasce dalla particolarità della grazia che ogni ragazza richiede. La margherita è simbolo di infedeltà e dissimulazione, mentre il rosmarino induce al ricordo, ed era consuetudine distribuirne alle nozze e ai funerali. Le viole del pensiero rafforzano il sentimento del ricordo, intriso di malinconia e dolore. Il finocchio rimanda ad atti di adulazione e inganno, tanto è vero che immediatamente dopo sono citate le violette simbolo di fedeltà e adesso appassite. Pentimento, tradimento, ricordi malinconici e dolorosi, adulazione e inganno, questi sono i pensieri che Ofelia offre, col linguaggio dei fiori, alla corte. Il gesto di distribuire fiori richiama un rito primaverile, ma officiato, come sappiamo dalla didascalia (XIII, 14), da una figura scarmigliata, che accompagna il canto con il liuto, strumento adatto alle lamentazioni e a melodie malinconiche. I fiori offerti negano pure ogni allegria [11]. Il tempo invernale, l’inverno del tradimento e del dolore, non è passato né si può rigenerare con un rito, scacciare magicamente come si scacciano simbolicamente, nelle feste di rinnovamento, i mali che durante l’anno hanno ferito la comunità. “E’ un’usanza più onorata se infranta che osservata” aveva commentato Amleto a proposito del rispetto delle tradizioni (IV, 12-13).

   Alla distribuzione delle pianticelle si accompagnano altre immagini ispirate alle credenze popolari. Ofelia ricorda la storia della civetta e della figlia del fornaio, leggenda tuttora viva nella contea di Gloucester, secondo la quale “Cristo entrò un giorno nella bottega di un fornaio, chiedendo per carità un poco di pane. La padrona che stava lavorando la pasta, ne levò un pezzo e lo pose in forno, dicendo a Cristo di attendere che fosse cotto, ma la figlia rimproverandola della sua prodigalità, lo trasse dal forno, rimettendone soltanto la metà. Questa cocendosi crebbe prodigiosamente, onde la figlia meravigliata si diede ad esclamare: ‘Huh! Huh! Huh!’. Questo grido fece venire in mente a Cristo la civetta, e bastò questo perché la ragazza fosse senz’altro  tramutata in civetta. Il motto si ripete a pungere l’ingordigia dei fornai”[12]. L’umanità è capace di derubare anche Cristo! Nessuno è al riparo dalla tentazione al male, nessuno può vantarsi della propria onestà. Riaffiora il pensiero di Amleto sulla malvagità totale che alberga nell’animo umano, tanto da accusare se stesso di ogni infamia: “Io stesso sono abbastanza onesto ma potrei accusarmi di tali crimini che sarebbe stato meglio che mia madre non mi avesse generato: Oh, sono molto orgoglioso, ambizioso, altezzoso, con più peccati ai miei ordini che pensieri in cui metterli. Che ci stanno a fare persone come me a strisciare tra cielo e terra?” (VII, 158-163). Dopo aver accennato alla storia della civetta e della figlia del fornaio Ofelia intona ‘Robin è tutta la mia gioia’ [13].

   L’invito a cantare il ritornello “e giù e giù e giù” (a down a down a down)  era tipico delle ballate popolari del tempo, come la giga dell’attore elisabettiano Attowell: “Hey down, a down! / Hey down, a down, a down! / There is never a lusty farmer / In all our town / That hath more cause / To lead a merry life…” (vv.1-6) [14]. Quanto alla storia della figlia del re e del ciambellano infedele, nonostante il ciambellano infedele (the false steward) sia presente in molte ballate del tempo, nessuna di quelle pervenuteci sembra adattarsi a questa. Tuttavia l’argomento risulta chiaro in base alla successiva ballata di San Valentino. Subito dopo, infatti, Ofelia avverte: “E se qualcuno ti chiede qualcosa, tu dì così.” (XIII, 87) e intona la canzone di San Valentino. Evidentemente in quella leggenda l’infedele ciambellano seduceva la figlia del re, come ogni Valentino seduce la sua Valentina.

    La canzone di San Valentino è il rimpianto di un tradimento. L’amato non mantiene le promesse: “[il giovane] fece entrare la ragazza, che ragazza non era più quando uscì (…) Disse lei: Prima di scoparmi promettesti di sposarmi. Rispose lui: Certo per il sole che sta lassù, l’avrei fatto se tu non fossi venuta a letto con me” (XIII, 94 – 104). Anche in questo caso il rito viene snaturato e privato della sua efficacia rigenerante. Di nuovo sembra risuonare la voce di Amleto quando profetizza che non ci saranno più matrimoni: “Non voglio più matrimoni, tutti quelli che sono sposati, tranne uno, vivranno, gli altri resteranno come sono.” (VII, 181-182).

   La chiusa con il saluto alle sole donne che appare incongruo: “Dio sia con voi mie signore” (XIII, 105), presente anche nella canzone precedente, conferma l’uso rituale della ballata e acquista in seguito al tema – della ragazza privata con violenza del padre e della innamorata abbandonata – maggior risalto. Molti canti tradizionali si rivolgono direttamente alle donne o invitano un pubblico esclusivamente femminile: “Come on ye ladies, great and small and hear unto me one and all” [15]. Del resto Ofelia non parla a nessuno in particolare e si attiene semplicemente al modulo della canzone. Non può esserci invece, come alcuni commentatori hanno sostenuto, alcun riferimento alla precedente battuta di Amleto che appella il re ‘madre’ (“AMLETO. Addio madre / RE. Il tuo amorevole padre, Amleto / AMLETO. Madre, ho detto. Tu hai sposato mia madre, mia madre è tua moglie, marito e moglie sono un’unica carne, e perciò, madre, addio!”, XI, 148-151), in quanto Ofelia non aveva assistito al congedo dal Re. Del resto il valore della citazione biblica (“L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne”, Genesi, 2.24) ha senso solo in quel contesto: la battuta di Amleto è di grande violenza satirica, se si pensa che il versetto successivo recita: ”Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna” (Genesi, 2.25). Amleto fa capire al Re che ha messo a nudo lui e la madre, un’unica carne che non prova vergogna per il delitto di cui si sono macchiati.

La morte di Ofelia, fanciulla-betulla

     La morte di Ofelia conferma che il rito dei fiori si ispirava al maggio e che ne è stata incoronata  Regina. Come tale annega secondo i più antichi rituali celtici. Frazer ne dà conto con esempi più miti (ad annegare è un fantoccio sostitutivo) dal folklore russo: “Il  giovedì prima di Pentecoste nei villaggi della Russia, i giovani vanno nei boschi cantando delle canzoni e intrecciando ghirlande, tagliano una giovane betulla, che vestono con abiti femminili e adornano di nastri e di strisce variopinte. Dopo di che fanno una festa alla fine della quale prendono la betulla vestita, la portano al villaggio con danze e canzoni di gioia e la mettono in una casa dove rimane, onorata ospite, fino a Pentecoste. Nei due giorni di mezzo fan visita alla casa dov’è la loro ospite, ma il terzo giorno, Pentecoste, la portano a un fiume e la buttano nell’acqua gettandovi sopra le loro ghirlande” [16]. Il rapporto fra l’albero e la sessualità era dichiarato in espliciti gesti erotici. Nelle feste celtiche “i pali erano in betulla e i giovani danzavano intorno ad essi durante la festosa celebrazione. In modo particolare le fanciulle si strofinavano i genitali sulla betulla (simbolo della Grande Madre) per propiziarsi la fertilità” [17]. In Irlanda era portata in processione una bambolina (Regina del Maggio) su un palo decorato da una ghirlanda fiorita. Questi fantocci erano comuni in Inghilterra ancora nell’Ottocento (fig.3).

Fig.3 - Regina di maggio bambola, XIX sec.
Fig.3 – Regina di maggio bambola, XIX sec.

   Il rito di maggio inscenato da Ofelia in uno stato di delirio, dato che la follia “giovane scarmigliata e scalza si dipinge, perciocché il pazzo non stima se medesimo, né altri, ed è lontano d’ogni politica conversatione” [18], denuncia la condizione irreversibile e totale della malvagità che regola la corte danese e l’assoluta solitudine di Ofelia. “Non c’è in tutta la Danimarca un furfante che non sia una canaglia matricolata” (V, 100-101), aveva sentenziato Amleto, e poco prima Marcello aveva esclamato: “Qualcosa è marcio nello stato di Danimarca” (IV, 58). Se lo spettacolo allestito da Amleto aveva lo scopo di rivelare allo zio il suo delitto, l’assassinio di un fratello, il rituale di Ofelia amplia la follia omicida a tutta la corte, dove si uccide per deliberato disegno o anche per caso. Infatti ‘c’è del marcio in Danimarca’. Deliberato o casuale l’omicidio è di casa in quella corte e Corambis paga per una colpa non sua.

Le quattro metamorfosi di Ofelia

   Durante le due entrate Ofelia, la figlia del ciambellano di corte, subisce delle profonde trasformazioni. I presenti la riconoscono a stento e la compiangono considerandola in preda alla follia per la morte del padre. Potremmo invece pensare, adattando a lei l’osservazione che il padre fa sulla follia di Amleto, nella versione del II in-quarto, che “c’è del metodo nella sua follia” [19]. La prima volta compare tutta scarmigliata con i capelli sciolti, cantando e accompagnandosi con un liuto. Il suo ingresso inatteso sorprende, come uno spettro disturbatore, il colloquio tra il Re e la Regina, preoccupati, per ragioni diverse, dell’esito del bando di Amleto e della rivolta popolare sobillata da Learte. Si alza la voce della fanciulla in un triste lamento per l’allontanamento del principe amato, immaginato come pellegrino (Ballata di Walshingham). Le stanze successive piangono la morte del padre. Al termine la fanciulla scompare. E’ proprio il Re a cogliere immediatamente la trasformazione della ragazza: “Così bella e così disperata! E’ un cambiamento davvero.” (XIII, 42). La prima immagine di Ofelia, in assenza di Amleto, è quella di innamorata abbandonata e figlia in lutto. Nel frattempo Learte e i rivoltosi invadono la scena accusando il Re per l’assassinio di Corambis. Quando le spiegazioni del Re e della Regina, scaricando tutta la colpa su Amleto, stanno persuadendo Learte, Ofelia appare la seconda volta, sempre scarmigliata, sempre con il liuto, ma serrando al petto mazzetti di fiori e pianticelle. E comincia a distribuirne ai presenti. Infine intona la canzone popolare del ‘dolce bel Robin’. La distribuzione dei fiori e la canzone ci dicono che ha subito una seconda metamorfosi. Le azioni e il canto appartengono al rito di maggio, che vede protagonista Marian, la pastorella-Regina del Maggio, in attesa del suo Robin [20]. Questi riti di maggio sono esplosioni di gioia, di canti festosi, di danze, di inni all’amore. Ma in realtà, come abbiamo già notato, i fiori e i rametti di piante che offre Ofelia parlano di tutt’altro: di pentimenti, inganni, ricordi dolorosi, infedeltà. Ofelia-Marian non esalta il risveglio della primavera, ma constata il perdurare delle tenebre invernali. La sua è una regina del maggio ‘alla rovescia’. La fanciulla non ha superato gli accenti di dolore della prima apparizione in un atteggiamento più sereno, ma li prosegue in uno stato di profonda malinconia. Nella sorella Learte riconosce “tormenti peggiori dell’inferno” (XIII, 84). Ma lo stato di Ofelia non perdura nel richiamo a un triste maggio. Dopo il ritornello (“E giù, e giù, e giù” – XIII, 85-86), si trasforma per la terza volta. Non è più Marian, ma Valentina (dal rito di maggio alla festa di San Valentino) [21], e canta il tradimento dell’amato con espressioni inusuali per una ragazza ‘di buona famiglia’: bestemmia, usa termini volgari e pronuncia oscenità con toni di ira e di rancore. Dagli accenti del dolore (Lamentatrice funebre) Ofelia è passata a quelli della malinconia (Marian), e infine a quelli di rabbia di donna violata e abbandonata (Valentina). Poi la fanciulla, col suo addobbo di fiori, scompare di nuovo dalla scena per raggiungere la riva di un fiumicello; sempre cantando, si lascia trascinare dalla sua corrente verso la morte, secondo un rituale arcaico e crudele, che spettava alla Regina del Maggio. Dunque una quarta metamorfosi (da Valentina torna Marian), che però non avviene in scena e di cui dà notizia Gertred.

Trattenere il respiro e interrompere il tempo del delitto

    Si è già notato che i temi affrontati da Ofelia sono quelli stessi che Amleto in più occasioni aveva enunciato; inoltre i due personaggi sono costruiti sullo schema di riconoscibili figure della cultura popolare del tempo: Amleto sulla figura del Nessuno [22] (figg. 4 e 5) e Ofelia su quella di cantatrice funebre, o di Marian, o di Valentina. Amleto dunque è veramente assente? Oppure Shakespeare ha fatto ricorso a un espediente tipico del teatro rinascimentale: l’uso del doppio? Con quella audacia drammatica che gli è propria avrebbe fatto di alcune figure femminili del folklore, interpretate da Ofelia, i doppi del silente Nessuno. Una lettura del genere non si può scartare del tutto, ma, allo stesso tempo, appare restrittiva, incapace di rendere la complessità della situazione. Tale interpretazione finirebbe per considerare queste scene come una ridondanza, un tumultuoso riassunto del ‘pensiero amletico’ che ha pervaso la prima parte del testo e che ha la funzione, precipitando gli eventi, di far scivolare la storia verso la catastrofe finale. L’identità di intenti tra i due protagonisti, a meno di non appiattire Ofelia su Amleto, deriva da una più alta complicità e non da un mero espediente teatrale in voga al tempo.

Quentin Massys - "Allegory Of Folly", 1510
Fig. 4 – Quentin Massys – “Allegory Of Folly”, 1510

   Il rito di maggio, evocato da una regina dolorosa, malinconica, che piange il padre e canta rabbiose oscenità, si insinua inaspettato e dirompente lacerando le tenebre della politica, in cui sono immersi il Re, la Regina e Learte: si apre così uno spazio incoerente – avvertito come pericoloso dagli attoniti manovratori di congiure colti sul fatto -, in aperta contraddizione con lo svolgersi degli avvenimenti. Tutta l’azione trattiene il respiro. Se Ofelia fosse stata il semplice doppio di Amleto non si sarebbe aperta questa frattura, non si sarebbe prodotta questa vertigine, che  coinvolge attori e spettatori. Nel respiro sospeso si blocca la naturale evoluzione della ferocia. L’assenza di Amleto ha lasciato in scena un vuoto di umanità, che ha permesso a Ofelia di spalancare uno spazio inaudito in cui il dolore aggrumatosi nell’interruzione del respiro possa riscattare tutte le colpe della marcia Danimarca. In quel vuoto il canto di Ofelia si leva per inceppare la macchina del delitto. L’intellettuale scettico Amleto aveva scelto il teatro per denunciare l’orrore del delitto del Re; Ofelia ricorre alle vecchie canzoni ascoltate durante le occasioni festive. Ma in tal modo oltrepassa i limiti del proposito di Amleto. Il suo rito di lutto e di impossibili primavere, sporcato dal delirio di potenza del Re, dalla sottomissione al tradimento dell’incestuosa Gertred, dalla insensata sete di vendetta di Learte, opera una  incerta dimensione del tempo, quella del resto che si realizzava durante le feste tradizionali, che interrompe la vita consueta, abituata a scorrere placidamente nell’intrigo. La speranza non è quella di aprire gli occhi dei cortigiani affinché vedano la mostruosità delle proprie scelleratezze, ma quella, più illusoria, di interrompere il tempo stesso del delitto. Sembra che la timida fanciulla tenti di realizzare il compito titanico a cui si sente chiamato Amleto: rimettere in piedi un mondo in frantumi (“AMLETO. Questo tempo è scardinato. Oh, maledetto destino, che mai io sia nato per rimetterlo in sesto!”, V, 163-164). In questo senso esiste una complicità tra Ofelia ed Amleto. Ma le figure create dalla ragazza non possono essere considerate uno stratagemma drammaturgico per mitigare l’assenza di Amleto; sono invece una presenza ribelle in altre forme, una diversa risposta al disagio del mondo, seppur consapevole della propria vanità. L’azione sulla scena può trattenere il respiro per un attimo, per il tempo della festa evocata, ma non può riparare le macerie della storia. E’ solo un battito di ciglia. La macchina della storia si rimette in marcia travolgendo tutti, colpevoli e innocenti.  La morte di Ofelia è la tragica, sofferta risposta al più straziante dubbio di Amleto.

Pieter Bruegel - "Ognuno", 1558
Fig. 5 – Pieter Bruegel – “Ognuno”, 1558

 

NOTE
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[1] Ho tenuto presenti l’edizione di Kathleen O. Irace, The first quarto of Hamlet, Cambridge, University Press, 1998 e quella italiana a cura di Alessandro Serpieri, Il primo Amleto, Venezia, Marsilio, 1997 I riferimenti testuali rimandano all’edizione della Irace. Nel I in-quarto alcuni nomi sono diversi da quelli che compaiono nel II in-quarto e nell’in-folio: Polonio (Polonius) è Corambis, Gertrude è Gertred, Laerte (Laertes) è Learte (Leartes), Rosencratz è Rossencraft, Guildestern è Gilderstone, Fortinbras è Fortenbrasse.

[2]  M.Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 1976.

[3]Diverse, ma coerenti alla stessa visione, le morti del Re  e di Learte durante il duello finale, che era stato preparato come trappola per Amleto. E’ lo stesso Learte in fin di vita ad ammetterlo: “Proprio come un imbecille stupidamente ucciso dalla mia stessa arma” (XVII, 83-82). Amleto costringe il Re a bere la bevanda avvelenata destinata a lui, dopo che Learte gli ha confessato che la madre è morta per aver bevuto, per sbaglio, quella stessa pozione.

[4]I due rituali appaiono in tale forma solo nel I in-quarto, mentre nel II (Q2 – 1604) e nell’In-folio  (1623), le entrate di Ofelia rimangono due, ma le stanze cantate sono mescolate, senza che sia possibile distinguere il compianto per Corambis dal rito primaverile. E’ questa una delle ragioni per cui il I in-quarto, solitamente trascurato, debba essere  letto nella sua autonomia. Sulla questione delle tre versioni dell’Amleto e sul valore del I in-quarto, considerato un bad-quarto, v. l’Introduzione di Alessandro Serpieri a Il primo Amleto, cit., pp.9-43 (Il mistero del primo Amleto). Serpieri ha anche pubblicato il testo del II in-quarto in W.Shakespeare, Amleto, Venezia, Marsilio, 1997, con le varianti dell’In-folio.

[5] “a true love” compare anche nella Ballata The Elfin knight, riportata e commentata da S.Baldi in Ballate popolari d’Inghilterra e di Scozia, Firenze, Sansoni, 1946, pp. 210 e 286.

[6]  Cesare Ripa, Iconologia ovvero descritione dell’immagini universali cavate dall’antichità e da altri luoghi, Roma 1593, voce Esilio (ed. moderna: Milano, TEA, 1992).

[7] Cfr. S.Baldi, Ballate popolari…cit. e Studi sulla poesia popolare d’Inghilterra e di Scozia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1949.

[8] Se ne sono trovate testimonianza in Europa e Asia fin dal 2000 a.C., v. E.Barber – J. Wauland, The mummies of Urumchi, New York, Norton, 1999.

[9] “Let me have lenght and breadth enough, with a green sod under my head” (“[Che la mia fossa] sia lunga e larga abbastanza, con una zolla d’erba sotto la mia testa”), Robin Hood’Death, 120b. 18.1-2.

[10] S.M.Blackmore, The riddles of Hamlet, Boston 1917.

[11] Il rovesciamento richiama l’innovativa rilettura della festa de Le Jeu  de la Feuillée di Adam de la Halle (Paris, Champions, 1976); per l’edizione italiana v. Adam de la Halle, Teatro, a cura di Rosanna Brusegan, Venezia, Marsilio, 2004.

[12]  Da Chi l’ha detto? Tesoro di citazioni italiane e straniere di origine letteraria e storica, a cura di G.Fumagalli, Milano, Hoepli, 1921, p.241.

[13] Sulla canzone di Robin v. H.Morris, Ophelia’s Bonny Sweet Robin, “Publications of the Modern Language Association”, LXXIII, 1958, pp. 601-603.

[14] Da Drammi pre-shakespeariani, a cura di B.Cellini, Napoli, ESI, 1958, p. 693.

[15] Esordio di maniera di molte ballate dedicate a storie di donne, come The lament of the border widow (I.1-2), in cui una vedova, travestitasi da uomo entra come ciambellano alla corte del re e infine, rivelatasi, lo sposa. Di questo tema si ricorderà Shakespeare ne  La dodicesima notte.

[16] J.G.Frazer, Il ramo d’oro, Torino, Boringhieri, 1965, I,p.195.

[17] G.Barbadoro-R.Nattero. Le feste dei Celti, Aosta, Keltia, 2012,pp.59-60.

[18] Cesare Ripa, Iconologia…,cit, voce Pazzia.

[19] Amleto, II in-quarto (II,2,204). Nel I in-quarto una considerazione simile c’è da parte di Learte, durante la distribuzione dei fiori: “Una bella lezione, pur nella pazzia” (XIII, 79).

[20] Di queste feste primaverili, diffuse in tutta Europa, abbiamo un esempio in Adam de la Halle, La commedia di Robin e Marion, in Teatro, cit., pp.151-260. Il testo è stato ritrovato in un manoscritto risalente al XIII-XIV sec. In Inghilterra la coppia è formata da Robin Hood e da Maid Marian.

[21]La sovrapposizione delle due figure deriva dalla comune finalità dei maggi e di San Valentino di celebrare gli amori, anche con chiari riferimenti sessuali e osceni doppi sensi.

[22] Su Amleto come Nessuno v. il mio: Amleto-Nessuno. Le visioni del sottotesto, in “Critica d’Arte”, n.6, giugno 2000, pp.52-60. Il Nessuno nella cultura del tempo si contrappone alla figura di Ognuno, l’uomo tutto proteso alla ricerca dei beni materiali e affatto cieco rispetto al proprio destino e alle finalità alte della vita. Il Nessuno, spesso ritratto col dito sulla bocca per invitare al silenzio, non partecipa del delirio del mondo, ma lo contempla rifiutando ogni azione. E’  maschera che appare frequentemente nelle illustrazioni del Mondo alla rovescia del folklore europeo. Cfr. Rubina Giorgi, Un tema della “Follia”: il “Nessuno”, in L’Umanesimo e “la Follia”, Roma, Abete,1971, pp.65-88 e Figure di Nessuno, New York – Milano, Out of London Press, 1977.

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FernandoFernando Mastropasqua è nato nel 1941 a Chiusi in provincia di Siena. Ha insegnato Storia del teatro e dello spettacolo nelle Università di Pisa, Trento e Torino. Tra le sue pubblicazioni: Le feste della rivoluzione francese, Milano, Mursia, 1976; Metamorfosi del teatro, Napoli, ESI, 1998; In cammino verso Amleto (Craig e Shakespeare), Pisa, BFS, 2000; Teatro provincia dell’uomo, Livorno, Frediani, 2004; La scena rituale, Roma, Carocci, 2007. In collaborazione con Ferdinando Falossi ha pubblicato L’incanto della maschera e La poesia della maschera, Torino, Prinp, 2014 e 2015. Collabora alla rivista “Critica d’Arte”.

 

 

 


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