Falossi/Mastropasqua “L’incanto della maschera”

 

Maschera di Capo dei Servi della Commedia Antica, da statuetta fittile del Museo del Louvre. (Lino stuccato e pelliccia di capra) - di F. Falossi
Maschera di Capo dei Servi della Commedia Antica, da statuetta fittile del Museo del Louvre. (Lino stuccato e pelliccia di capra) – di F. Falossi

 

È uscito da pochi mesi, per le Edizioni PRINP,  il libro “L’incanto della maschera – origini e forme di una testa vuota” di Ferdinando Falossi e Fernando Mastropasqua.
Si tratta di uno studio importantissimo sul dispositivo maschera che parte dai greci per arrivare ai giorni nostri. Ci sembra di poter dire (limitatamente alle nostre conoscenze e ricerche) che un lavoro così articolato appaia per la prima volta in una pubblicazione italiana. In effetti l’opera completa sarà composta da due volumi e questo è quanto ci riferisce telegraficamente Falossi sulle due parti: “Se il primo volume considera l’incanto della maschera, cioè la sua origine legata alla magia, al rito, al mondo degli antenati e degli spiriti, insomma, il suo essere icona indossabile, il secondo volume parlerà della poetica della maschera, ovvero del suo diventare linguaggio espressivo in teatro, e in particolare in quel teatro che si situa alle origini della nostra cultura, cioè il teatro greco. Infatti  esaminerò la maschera nelle sue differenziazioni e nella sua evoluzione all’interno dei tre generi teatrali, Tragedia, Commedia Antica, Commedia  Nuova e Dramma Satiresco. Un intero, consistente capitolo sarà dedicato alla ricostruzione, per quanto possibile filologica, della maschera greca, con analisi dei colori, dei materiali e degli stucchi.”

Maschera della strega Rangda. Spettacolo Barong di Batubulan (Bali, Indonesia)
Maschera della strega Rangda. Spettacolo Barong di Batubulan (Bali, Indonesia)

Dovunque l'apparire della maschera desta inquietudine e contrastanti sensi di smarrimento, stupore, ammirazione. È l'incanto che i Greci chiamavano thauma, parola che caratterizzava l'inesprimibile, l'inaudito, parola che annunciava un luogo di meraviglie, fascinazione, malìa, e anche, per il Padre Gregorio di Nazianzo, il compiersi del miracolo cristiano. La maschera è il simbolo più antico e universale della coscienza della finitezza umana ('meglio non essere nati'), per questo essa ricopre di una corteccia 'immortale' il corpo deperibile dell'uomo, come le maschere funerarie d'oro celavano il volto in decomposizione del morto; ed è anche la prima perfetta realizzazione di 'macchina del tempo': infilarsi dentro una maschera trascende l'io, lo spazio e il tempo. Tra le infinite varietà di forme sono qui raccolti alcuni dei suoi molti incanti: dai culti arcaici e dai riti ancestrali fino ai miti della cultura classica, dalle epifanie nel folklore europeo fino ai fantasmi circensi. La perdita di aura nella società moderna costringe la maschera in spazi inusuali e a profonde degenerazioni. Tuttavia la sua presenza in molti carnevali risparmiati dalla mercificazione turistica e nella pratica scenica più attenta alla sperimentazione, sulle orme di Craig, Mejerchold, Brecht, non meno che nelle piazze 'indignate' o nelle foreste del Chiapas insorgente, rende ancora attuale l'invocazione del Mercuzio shakespeariano: "Datemi una custodia per metterci dentro la faccia! Una faccia su una faccia".


RICONGIUNGIMENTI – L’incanto della maschera

di Walt G. Catalano

 

La fissità viene definita come “l’essere fisso, fermo, detto soprattutto dello sguardo o del pensiero” (Vocabolario Treccani). Un’espressione facciale che esprime uno stato d’animo, nell’attimo in cui si palesa va ad amplificarsi in quella che viene recepita dall’altro come primordio assoluto della comunicazione. Comunicare attraverso le espressioni del volto è un atto antecedente al linguaggio, che rappresenta nella sua mutevolezza la modalità più semplice di recepire l’altro da sé.
Facciamo questa premessa perché “L’incanto della maschera, origini e forme di una testa vuota” è un libro che parla di comunicazione e della potenza dell’espressività umana. La maschera nella sua fissità stabilisce ed evoca le espressioni somatiche contribuendo non solo a rendere il volto qualcos’altro, ma mutando radicalmente il comportamento di chi la indossa riconducendolo in un mondo di antiche pulsioni (come nel caso dello sciamano), o calandolo in un personaggio diverso dalla persona, come nel caso del lavoro attoriale. Questo accade in una relazione di scambio biunivoco tra faccia/corpo (modalità) e maschera, tale che la staticità della maschera viene ad assumere tutte le valenze dell’umana o ferina fisionomia. In un’unica sagoma un universo di opposti che scaturiscono in lampi di puro inconscio da decriptare. L’indossamento della maschera ricongiunge il corpo alla mente attraverso meccanismi subcoscienti che mutano il modo di rapportarsi con se stessi e con gli interlocutori, creando una serie di risposte che non sarebbero possibili nel contesto della normale comunicazione fra individui.  
Il libro si presenta come un un caldo ed avvolgente piano-sequenza sokuroviano (ci riferiamo in particolare al film”Arca russa”): dalla copertina in cui dallo sfondo nero spiccano i colori della Maschera Kwakiutl (Becco ritorto del cielo), il lettore viene proiettato in un percorso che attraversa le epoche e le culture, risvegliando  strati profondi della memoria collettiva.
Il primo capitolo affronta lo sciamanesimo: lo sciamano che diviene guaritore, ponte con il regno dei morti ed essenziale contatto con la cosmogonia. Il viaggio continua nel XII secolo a.C. con la maschera gorgonica Greca, madre di tutte le maschere che difende dagli inferi e impedisce la contaminazione fra i due mondi: “L’altro mondo resiste così alla profanazione dell’umano con la riaffermazione del non umano come valore primordiale”. Nel terzo capitolo ci troviamo nella Grecia del V secolo a.C. con l’immaginario dionisiaco e la figura del satiro che coincide con “l’immagine che l’uomo greco si prefigura della pienezza dell’essere, concretizzata in un’epoca metastorica in cui vita, natura, divinità, non sono in lotta fra loro”, dunque il satiro è uomo dionisiaco ma lo è anche lo spettatore. Il Pittore di Pronomos è un punto fondamentale del quarto capitolo, dove viene esaminata la ceramica del grande cratere a volute di Napoli, che vede i vari protagonisti interagire con diverse maschere. Il quinto capitolo è dedicato a un’analisi delle maschere da circo, circonferenza magica che rafforza i legami fra attori e spettatori, partendo dai greci per arrivare alla storia contemporanea. “Maschera e Tempo” chiude il volume partendo dall’analisi del rito dei danzatori Warimé, della popolazione venezuelana Piaroa, per suggerire come la maschera riesca a sottrarre l’essere dal tempo.

Questa opera rappresenta molto di più di un semplice manuale, possiamo ricavare in ogni pagina tracce di etologia, antropologia, analisi dei miti e elementi di natura psicodinamica come il transfert, la deindividuazione e l’inconscio collettivo, anche se non vuole essere un libro di ascendenza junghiana, né tantomeno si vogliono affrontare direttamente elementi di natura psicodinamica che comunque ogni lettore potrà decidere o meno di prendere in considerazione. E’ uno spazio nel quale possiamo muoverci liberamente, senza vincoli di inizio e fine scoprendo poi alla conclusione, come nel film di Sokurov, che viviamo sospesi su un mare sconfinato di simboli. Ci troviamo dunque di fronte all’opera più completa sulla storia della maschera nel teatro, almeno per quanto riguarda la letteratura in Italia e ricordiamo che il progetto comprenderà due volumi, il secondo dei quali uscirà nel corso dell’anno a venire.

 

 

INTERVISTA a Ferdinando Falossi
a cura di Walt G. Catalano

 

1)    “L’incanto della maschera – origini e forme di una testa vuota”: una gestazione durata dieci anni, ci può parlare della genesi e delle esigenze che hanno portato a questa opera?
In effetti la gestazione è durata anche il doppio. L’incontro con la maschera, poi, risale addirittura al 1976, in particolare a un seminario sulla maschera della Commedia dell’Arte condotto da Donato Sartori e organizzato dal Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera. Erano gli anni in cui Pontedera era davvero l’ombelico del mondo per i giovani che approdavano al teatro e volevano andare oltre quello che chiamavamo “tradizione”, o “accademia”. Io, che venivo da una realtà di paese della provincia di Livorno, ho potuto “vedere”, ma anche lavorare, avere contatto, non solo con colossi come Jerzy Grotowski, Eugenio Barba, o Julian Beck, ma anche e soprattutto con una galassia di realtà che si situavano ai confini del teatro inteso in maniera tradizionale, realtà che avevano ancora i piedi nel rito, nella religione, nel folclore, mentre la testa si affacciava su un  linguaggio laico e teatrale. Teatro eskimese, balinese, greco-turco, teatro di figura, con nomi come Obrazov, Cuticchio, i Colla, Otello Sarzi, tutto passava per Pontedera, che in quel momento storico rappresentava la rottura dei confini e delle barriere tra i generi e le famiglie del teatro. Sartori tenne il suo corso al centro di un convegno universitario sulla Commedia dell’Arte tra i relatori c’era il prof. Mastropasqua. In quella occasione ho capito, o meglio, ho intuito senza capirlo, che la Maschera è il Teatro, e ho seguito Sartori quando mi ha proposto di lavorare con lui nella sua casa-laboratorio nella campagna di Abano Terme. Lavorare in quella casa non significava solo produrre maschere di cuoio, ma anche studiare, accumulare materiali e conoscenze, e, dopo anni di accumulo, mettere in ordine. Ma è stata quella intuizione: “la maschera è il teatro”, che si può leggere anche al contrario: “il teatro è la maschera”, condivisa fin dall’inizio con Fernando Mastropasqua, a far nascere l’esigenza di un’opera che conferisse a questo oggetto i connotati di un punto di vista attraverso il quale riesaminare tutti i princìpi del fare teatro. L’idea del libro è comunque sempre stata quella di un manuale-antologia di fonti destinato agli studenti, soprattutto a quelli non abituati a questo genere di argomenti.

2)    Durante la sua formazione Universitaria in Storia del teatro è stato seguito dal Prof. Fernando Mastropasqua con il quale ha conseguito la laurea; nei tempi successivi avete sviluppato aree di interesse diverse per quanto riguarda lo studio della maschera?Diverse non direi, anzi. Mastropasqua per me è stato ed è IL Maestro; le nostre aree di interesse sono sostanzialmente le stesse. Maggiori sono invece le sue capacità di spaziare in territori d’indagine che io forse non avrei affrontato spontaneamente, come il teatro di varietà, o il circo; anche se sono io, poi, ad aver lavorato, per esempio, con Zingaro, il circo-teatro di Bartabas. 

3)    Lei realizza anche manualmente delle maschere, qual è  la cosa più importante che insegna ai suoi allievi durante i laboratori sulla realizzazione della maschera?
Il messaggio più importante, quello alla cui comunicazione io tengo di più,  si può sintetizzare in questa frase: “non facciamo gli artisti”. La costruzione di una maschera è una fatica artigianale. Qui non si può dire “io lo vedo/sento così”, come fa l’artista. C’è da costruire l’immagine di uno spirito, o di un dio, o di un personaggio teatrale, che poi sono la stessa cosa, e bisogna stare attenti a quello che ci si mette dentro, perché lo spirito, o l’attore, che poi sono la stessa cosa, potrebbe non riconoscersi, e allora la maschera non funzionerebbe. “Funziona” o “non funziona” corrisponde oppure no, questi sono gli unici criteri di giudizio per la realizzazione di una maschera. Non “è bella” o “è brutta”. E soprattutto il mascheraio è un artigiano che umilmente si mette al servizio, dell’autore, poi del regista, poi dell’attore, che è l’utente finale dello strumento che si costruisce. Figuriamoci se in una prospettiva simile sono ammissibili le velleità narcisistico artistoidi new age che vanno di moda oggi.

4)    Come si relaziona con la sua doppia anima di artigiano e studioso quando realizza una nuova maschera? Nella fase della genesi si ispira a qualcosa di totalmente nuovo o a un concetto preesistente?  
Dopo un periodo passato sui libri ho sempre provato una sorta di insofferenza, la stessa che provo durante un laboratorio nel quale trascorro la giornata tra creta, gesso e colori.  Io penso che esista un sapere al quale si può accedere studiando libri e un altro che passa da quella conoscenza che viene dalle mani, dall’attraversare la materia. E’ per questo che i miei seminari sono stati sempre teorico-pratici. Se, studiando una maschera, si tenta anche di ricostruirla e ci si confronta con la concretezza della creta, della colla del colore, si finisce col conoscere molte più cose e col capire meglio quello che si sta studiando/facendo. Questa doppia anima è sempre stata molto presente in me, oggi, tuttavia, non vivo più tutto ciò come un conflitto. Penso anche che quello di separare saperi e dividere discipline sia uno degli errori tipici della nostra epoca. Leonardo costruiva e studiava, pensava e scolpiva, dipingeva, progettava e scriveva, componeva e suonava.

5)    Ci parli dell’invisibile legame fra carne e totem.
Immagino si riferica a qualcosa che riguarda la psicanalisi e questo mi rende difficile rispondere. Per gli Indiani che frequento io, i Kwakiutl della British Columbia, il totem è presenza assoluta e inviolabile, quindi è carne. Può essere creato ma mai restaurato. Non è un legame è un’identità.

6)    Prima Darwin e successivamente Paul Ekman si sono interessati allo studio delle emozioni constatando che il volto può esprimere fino a 10.000 microespressioni facciali, quanto incide questo aspetto nei suoi studi? 
Non incide per nulla. Per tirare in ballo in maniera molto grossolana un argomento che affronto nella seconda parte della ricerca, nel teatro della Grecia antica, il tramonto della maschera è avvenuto proprio quando, con Menandro, il personaggio ha perso il proprio carattere di icona, cioè di immagine emblematica, simbolica, per diventare entità espressiva ricca di sfaccettature e di sfumature, soggetta a cambiamenti di condotta. La maschera non serviva più, perché era costretta a rincorrere il volto sul terreno della mobilità laddove il suo specifico comunicativo è la rigidità. Quando la maschera vuole imitare la quantità di espressioni di cui è capace un volto, essa perde ogni ragione di esistere. E’ un po’ come vedere una competizione tra cinema e fotografia. Il primo non è superiore alla seconda perché descrive il movimento. Sono solo due linguaggi diversi che parlano all’anima in modo diverso.

Maschera Kwakwaka'wakw di Uccello Tuono (della famiglia Hunt). Museo Nazionale di Victoria (British Columbia, Canada)
Maschera Kwakwaka’wakw di Uccello Tuono (della famiglia Hunt). Museo Nazionale di Victoria (British Columbia, Canada)

7)    Le espressioni facciali false a differenza di quelle vere sono intenzionali e comportano l’innesco di una maschera, come si rapporta con questo aspetto nella vita di tutti i giorni? 
Esattamente come ci rapportiamo tutti con il falso che domina la nostra società, o meglio tutti quelli che il falso sono in grado di decifrarlo e smascherarlo; ma questo non riguarda né i miei studi né l’opera di cui stiamo parlando. Personalmente non amo il gioco di questo genere di maschere.

8)    Mischiamo gli elementi: cosa succederebbe se uno sciamano in piena trance conducesse un esorcismo?
Ci sono elementi che non si possono mischiare a rischio di fare critica tendenziosa, ci sono culture che non si possono, a capriccio, travasare da un alambicco all’altro. De Martino ci ha insegnato che l’attenzione al contesto e all’orizzonte categoriale di una cultura non sono degli optional per la comprensione dei fenomeni.

9)    Negli ultimi decenni le popolazioni nordiche si sono ricongiunte alla mitologia narrata nell’Edda, alle loro radici: questi temi verranno trattati in qualche modo nel secondo volume dell’opera? 
No. Se questa prima parte, dedicata alle origini rituali della maschera teatrale, riporta alcuni esempi tratti dall’antropologia, secondo me efficaci per la comprensione del linguaggio della maschera, la seconda parte sarà tutta dedicata all’evoluzione di questo oggetto nei tre generi del teatro greco, Tragedia, Commedia e Dramma Satiresco, e al rapporto tra la tecnologia costruttiva e la funzione espressiva della maschera.

 10)    Fumetto e cinema di genere: la maschera è stata una colonna portante di entrambi, pensiamo al capolavoro di Miller “Il Cavaliere Oscuro” o “Non aprite quella porta” di Tob Hooper, opere basate su concetti dinamici come il transfert e la de-individuazione, vorrei chiederle se, allo stato attuale c’è un abuso smodato del “sistema maschera”?
Sì, nel primo capitolo ho parlato di un impoverimento generale del significato della maschera, che oggi viene percepita per lo più come oggetto che serve a nascondere anziché a rivelare, mentre nel teatro antico o nel terreno antropologico la funzione rivelatrice è dominante. I casi che lei cita andrebbero analizzati in profondità e separatamente, perché, per esempio, il fatto che per un personaggio come Leatherface, l’autore preveda maschere differenziate, come la Maschera della Fanciulla Dolce o la Maschera della Rabbia o del Macellaio, è molto interessante perché fa pensare a una maniera “antica” di intendere la maschera.

11)    Ho avuto modo di vedere alcune delle maschere da lei realizzate: i segni del tempo, le rughe che segnano volti, il cui baricentro è spostato verso la follia. Sembra che il palesarsi della patologia sia un normale flusso vitale facendo, a mia sensibilità, emergere una dimensione antipsichiatrica. C’è un intento di questo tipo nella realizzazione di questa serie di  maschere? Oppure si tratta più semplicemente di una filiazione diretta della maschera silenica greca? 
Se ci riferiamo alle maschere dei servi della Commedia Antica, la filiazione diretta della maschera silenica è fuori di dubbio. Forse però posso fare un esempio utile a chiarire una trasformazione avvenuta già nell’antichità nella concezione della maschera. Sileno, e con lui i satiri, ha zigomi alti, naso rincagnato, narici dilatate, occhi vividi, ed è colorito in volto di un rosso acceso. In questi lineamenti è contenuta tutta la simbologia della bestia divina caprina legata all’ambiente dionisiaco: naso del demone caprino che respira a pieni polmoni, occhio pieno di vitalità animale, rosso del sangue, dell’amore, del sesso inneggiante alla vita. Ecco, con le Physiognomonikà, cioè con la scuola postaristotelica, questi, che erano simboli, diventano sintomi, affezioni fisiologiche di un tipo umano: quello del folle lussurioso. Il rosso è dovuto all’eccesso di circolazione sanguigna, e gli occhi spiritati diventano sintomo di sfacciataggine, così le narici dilatate, come quelle dei lussuriosi cervi, producono una sovrabbondanza di ossigenazione che induce alla sfrenatezza sessuale. E così via. È chiaro che al teatro interessa il primo approccio e non il secondo. Comunque, se dire che il folle ha più diritto di cittadinanza e viene meglio accolto nelle civiltà “antiche” contemporanee piuttosto che nella nostra è una posizione antipsichiatrica allora sì, ne sono convinto.

12)    Nei primi tre capitoli del libro (Il volo dello sciamano, I Gorgoni eroi e uomini qualunque: la maschera Greca, Il Dio della maschera: Dioniso e la metamorfosi) antropologia culturale, etologia e mito si intrecciano gli uni negli altri dando vita uno stimolante ribollire del subcosciente, che oggi la tassonomia specialistica ha troncato. È volontà di questo libro riportare il lettore in quell’antico magma? 
Più che riportare, “offrire” al lettore un’ombra di quella antica visione, perduta, che è totale e unitaria, e non conosce steccati fra un sapere e un altro, tra un pensiero e un altro, e fortunatamente ignora la tassonomia specialistica.

13)    Possiamo definire il teatro come un rito psicodinamico collettivo?
Niente affatto. Ma cosa sia definibile come teatro è questione tanto complessa da non potersi comprimere in una piccola risposta.

14) Metodo Stanislavskij: chi c’è dietro la maschera quando la maschera non c’è? 
Stanislavskij o non Stanislavskij, Goldoni o non Goldoni, la maschera c’è sempre. Non esiste teatro a volto nudo, perché anche il volto nudo è maschera, altrimenti il teatro non avrebbe forme. Il problema è affrontato nell’ultimo capitolo del libro.

Maschera di "S" per lo spettacolo "Essedice", di Sacchi di Sabbia, Falossi, Gipi. (Lino stuccato) - di F. Falossi
Maschera di “S” per lo spettacolo “Essedice”, di Sacchi di Sabbia, Falossi, Gipi. (Lino stuccato) – di F. Falossi

15) Ci racconti dello spettacolo teatrale “Essedice” del 2010 con Gipi e Sacchi di Sabbia, penso che sia stato emozionante entrare nell’intimità di un ricordo infantile, visto che lo spettacolo riguardava proprio la vita del padre del fumettista. Vorrei chiederle inoltre se Gipi le ha fornito indicazioni per la realizzazione delle maschere o ha lavorato in totale libertà? 
Prima di tutto devo dire che Essedice è stata un’esperienza magnifica. Ho conosciuto Sergio, il padre di Gipi, molti anni prima di conoscere il figlio. Negli anni dell’Università, quando volevo diventare un fotografo, mi aiutava bonariamente e mi lasciava andare nel suo magazzino a scovare pellicole e carte da stampa un po’ datate che poi mi regalava. Non c’è stato un problema di intimità, perché il feeling con Gipi e con Giovanni Guerrieri dei Sacchi di Sabbia è qualcosa che ci lega ancora. E poi quello era uno spettacolo “greco”: niente di psicologico, niente di psicoanalitico. Quello che si metteva in scena era una compresenza impossibile di vivi e di morti, resa possibile dalla maschera. Sul palco c’erano “S”, che non c’è più, Gipi bambino, che non c’è più, la giovane mamma di Gipi bambino, che non c’è più, e il Gipi attuale, che invece c’è, ma che, se vuole interagire con gli altri, deve indossare la maschera, pena l’impossibilità di comunicare. Tutto questo per opera di due extraterrestri di vonnegutiana memoria che hanno la bella idea di trasformare il corso lineare del tempo in un tempo circolare,(cioè nel tempo del teatro antico), un eterno presente, dove i morti tornano e con loro si può parlare. Per questo, quando ho costruito le maschere per lo spettacolo, ho voluto usare la tecnologia della maschera greca e le ho fatte di lino stuccato.
No, Gipi non è il tipo che fornisce indicazioni. Io volevo portare i suoi disegni nella terza dimensione. Non era difficile, perché il suo modo di concepire il disegno dei volti è basato sull’eliminazione dell’inessenziale. Non ci sono particolari realistici; non ci sono connotati fotografici o anagrafici. Insomma non ci sono ritratti, ma solo icone, come nella pittura bizantina. In un volto lui mette “gli” occhi, “il” naso, “la” bocca, e naturalmente “le” orecchie, quelle che fa solo lui. Poi c’è il connotato dell’età: più giovane, meno giovane, vecchio. E poi basta. Sono il contesto, l’azione e la parola che definiscono il personaggio. Un altro grosso punto d’incontro con la maschera greca. Sì, ho lavorato in totale libertà e in un clima di festa, viste le sue reazioni ogni volta che nasceva una nuova maschera. Poi le abbiamo colorate insieme.

16) La pregherei di togliersi la maschera e dirci la prima cosa che le viene in mente. 
Il mascheraio è la coscienza della maschera, per questo come lei è una testa vuota priva di cervello e di pensiero.

Tutte le foto sono di Ferdinando Falossi

Maschera di Dioniso, per Vittorio Gassman.(Lino stuccato e pelliccia di capra) - di F. Falossi
Maschera di Dioniso, per Vittorio Gassman.(Lino stuccato e pelliccia di capra) – di F. Falossi

 

Ferdinando Falossi, laureato in storia del teatro e dello spettacolo con una tesi sulla maschera greca, ha collaborato all’insegnamento di Storia del Teatro dell’Università di Pisa. Lavora oggi come operatore presso la Cooperativa CREA di Viareggio. Ha realizzato diversi “spettacoli” all’interno delle strutture per il disagio giovanile e le malattie mentali, e le ha documentate in video. Allievo di Donato Sartori è costruttore di maschere, sia in cuoio che in altri materiali, ha realizzato maschere per gli spettacoli teatrali di Zingaro e per il Re Lear del Footsbarn Travelling Theatre. Tra le sue pubblicazioni L’erma dal ventre rigonfio. Morfologia della maschera comica, a cura del Teatro Laboratorio diretto da Beatrice Pre- moli, Roma, ETL, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, 1989 e Gorgòneion: la forma del- l’oxymoron in AA.VV., Maschera Labirinto, Roma, ETL, 1991. Tra i suoi video Totem, Viareggio, CREA, 2005, Cartamusica, Viareggio, CREA, 2013.

Fernando Mastropasqua, già professore di Storia del Teatro presso le Università di Pisa, Trento e Torino, si è occupato di feste, di maschere antiche, di carnevali, di regia. Le sue più recenti pubblicazioni sono: Komos, il riso di Dioniso: Maschera e Sapienza, Roma, ETL, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, 1989; Metamorfosi del teatro, Napoli, ESI, 1998; In cammino verso Amleto (Craig e Shakespeare), Pisa, BFS, 2000; Teatro provincia dell’uomo, Livorno, Frediani, 2004; La scena rituale, Roma, Carocci, 2007; collabora alla rivista “Critica d’Arte”.

 

Commenti

2 risposte a “Falossi/Mastropasqua “L’incanto della maschera””

  1. […] con un testo critico di Fausto Curi, pubblichiamo un interessantissimo saggio breve del Professor Fernando Mastropasqua su un frammento preciso dell’Amleto shakespereano, quello in cui Amleto non è presente […]

  2. […] distanza di circa un anno dall’uscita del libro “L’incanto della maschera – Origini e forme di una testa vuota”, Fernando Mastropasqua e Ferdinando Falossi presentano il secondo volume, “La poesia della […]

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