Sabato 8 novembre 2014 dalle ore 18.00 si inaugurerà la mostra personale dell’artista Claudia Marchetti. Sarà possibile apprezzare le opere fino al 30 dicembre, presso l’originale e curato spazio espositivo della Galleria Ceribelli di Bergamo (Via San Tomaso 86, tel 035 231 332, dal martedì al sabato 10-12.30 / 16-19.30).
Il catalogo è interamente curato da [dia•foria, (sarà presente in Galleria) con un testo critico di Nadia Marchioni e due interviste all’artista in appendice della stessa Marchioni e di Daniele Poletti; foto di Silvio Pennesi.
DI FRONTE E ATTRAVERSO
dentro e fuori da un centro
di Daniele Poletti
A più di dieci anni di distanza dalle prime prove oggi Claudia Marchetti ha raggiunto una riconoscibilità stilistica e una maggiore coscienza di ciò che l’universo delle sue donne vuole esprimere. All’iniziale istintività del trasferire nella materia pulsante della creta -che vive di tempi tecnici relativamente brevi per quanto riguarda l’essicazione ad esempio e dove idea e gesto quasi coincidono- l’urgenza di un momento o la trasfigurazione di un’emozione, si è via via affiancata una maggiore riflessività che ha portato ad approfondire la ricerca di nuove soluzioni formali, come nelle sculture monocromatiche a fasce di colore e ad inserire nella produzione nuovi oggetti biomorfi che ha definito biomasse. Parlo di affiancamento e non di sostituzione perché l’approccio è ancora quello di lavorare secondo un’idea precisa e seguendo uno sviluppo plastico che ha le doti dell’immediatezza, senza affaticare la materia e con pochissimi ripensamenti. Tutto ciò è possibile grazie alla grande capacità tecnica dell’artista e alla padronanza di tutte le sfaccettature dell’anatomia di un corpo. Di quest’ultimo aspetto ella ne fa un puntiglio etico, nel senso che la via della nuova figurazione, come lei la intende e l’ha intrapresa, prevede una restituzione fedele del corpo: gli errori anatomici, che un occhio tecnico può valutare se voluti o meno, sono per Marchetti inaccettabili mancanze di onestà. Questa posizione non deve essere presa come un’arida fissazione e ostentazione formale, perché anche in Marchetti compaiono delle difformità anatomiche, ma che sono frutto di un calibrato slancio enfatico (si perdoni l’ossimoro) che semmai richiama l’esperienza della maniera, dell’amato Parmigianino ad esempio.
Le figure di donne che si comunicano a noi ancora con una ieraticità da icona, come nei primi lavori, -dove il sacro aspetto della sospensione del tempo si accompagna alla sospensione del suono, entrando noi a far parte di un nuovo centro, secondo quanto sosteneva Mircea Eliade in “Il sacro e il profano”- sono diretta filiazione della scultura quattro-cinquecentesca: dalla compostezza formale di Desiderio da Settignano fino al plasticismo estremo di Guido Mazzoni. Claudia Marchetti, come dicevamo, appartiene a quella schiera di artisti che hanno cercato e cercano di reinventare il figurativo e per i quali (o almeno per Marchetti, ma anche la scuola del legno sud-tirolese può dirci qualcosa al riguardo) la ricerca di novità espressiva non passa attraverso il travaglio formale, lo squasso delle regole e la suggestione di un modellato che-ricorda-un-corpo (esempio paradigmatico tra i classici moderni è Arturo Martini), anzi diremmo il contrario. La fedeltà quasi fotografica al reale è un primo livello di condivisione e seduzione che dovrebbe crearsi con lo spettatore. Chi guarda ha delle coordinate precise per l’individuazione del sistema e all’interno del sistema può entrare in sintonia o meno con la volontà dei segni. In questo punto di passaggio, che è poi varcare la soglia del tempio per tornare a Eliade, sta la vera ricerca dell’artista, che solo in apparenza è meno accidentata e più facile della sperimentazione integrale. Laddove nell’esperimento la marca distintiva si dà nell’immediato della visione, tale che la potenza formale nel migliore dei casi coincide con la suggestione concettuale, nel neo-figurativo il cammino è più sfumato, ci troviamo all’interno di un sistema di segni noto che ammicca a un nucleo ignoto, da scoprire.
Nel caso di Marchetti questo ignoto non ha niente di perturbante o di intellettualistico, ma è centrato sull’analisi della quotidianità e dell’intimo. L’attenzione è focalizzata sugli aspetti più consueti e minimi del vivere, i personaggi di cui parla -lontani dall’epica della storia, ma non fuori da essa- diventano testimoni di piccoli frammenti di vita. Le azioni che essi compiono non sono altro che rapide immagini del reale, attimi catturati che si ripetono e si ripeteranno nella gestualità abituale della persona, con un accento che solo ad essa appartiene. L’artista considera questa caccia “un movimento REM in fase di veglia”. Il gesto entra così a far parte di una sorta di rituale, contemporaneamente individuale e collettivo, che ridetermina la normalità di ogni attimo come sacro. Dunque il tempo inteso come coesione di impercettibili tessere che, simili a frattali, ne testimoniano la preziosità. Ma oltre alla sospensione e all’individuazione precisa di un nuovo tempo, di un diverso fluire, nelle figure di Marchetti c’è un rinforzo percettivo che proviene dal fuori campo, in una direzione non inversa rispetto a quella che abbiamo fatto per trovarci di fronte all’opera, ma che va attraverso, al di là dell’opera, cioè dietro di lato sopra etc., fisicamente ma in senso mentalmente (!). Questo fuori campo è tutto appannaggio dello spettatore, il piccolo teatro del gesto innesca una narrazione, una storia, una figurazione oltre la figura, che chiedono di essere scoperte appunto e completate.
Tali aspetti dell’opera di Marchetti risultano amplificati e approfonditi attraverso nuove soluzioni formali negli ultimi lavori del 2013/14, in particolare la serie di sculture in terracotta con fondo bianco o nero con fasce di colore. In queste sculture si avverte una doppia volontà rappresentativa. Da un lato l’enigma del “venire al mondo” attraverso il colore e dunque la luce: individuare attraverso le fasce colorate alcune parti significative del corpo (occhio, labbra, capelli, etc.), provoca un’accelerazione percettiva, che porta lo spettatore (di nuovo) a completare il mancante, l’ancora inerte bianco. Dall’altro lato il lavoro di ricomposizione di chi vede si complica perché vengono giustapposte fasce di colore di diversa tonalità, non viene utilizzato un colore uniforme. La soluzione evidenzia una riflessione profonda dell’artista sulla luce: si danno delle possibilità, delle ipotesi di visualizzazione dell’opera, tali da rendere la scultura potenziale, il racconto varia al variare della luce e di conseguenza anche il momento è variabile e incrementabile. Ci troviamo di fronte a una sorta di quaderno di appunti sulle infinite declinazioni di illuminazione di un solido che qui sono solo abbozzate, incomplete. Perciò chi guarda adesso è investito da un ruolo ancora più poietico e chiamato una volta per tutte a una partecipazione attiva, non più e non solo il dovere di indovinare cosa è accaduto poco prima dell’istante congelato e cosa potrà accadere poco dopo, ma addirittura dare vita al sembiante dell’attore (attrice!) di quei gesti e quelle posture. Se l’opera d’arte non ha quasi mai un valore esclusivamente enunciativo, in questo caso possiamo affermare che si entra in contatto non solo con un’evocazione, ma con un vero e proprio processo maieutico.
A questo punto potrebbero venire in mente i già citati artisti dell’area sud-tirolese, come Demetz o Verginer ad esempio, ma in realtà il lavoro di Marchetti si distacca abbastanza nettamente da questa scuola perché, come si può vedere sotto dalle due foto, l’utilizzo localizzato di colore che essi applicano ha più una funzione straniante, che richiama situazioni fantastico/surreali o di cercato pleonasmo espressivo. L’approccio di Marchetti ci appare goethianamente più scientifico, catalogatorio nel senso della curiosità di selezionare possibilità.
Quanto è stato detto finora rischia la smentita se si osserva l’ultima produzione dell’artista, parallela e intrecciata a quella delle figure, cioè le biomasse.
Le biomasse sono forme che richiamano palesemente la materia organica, la plasticità globulare e ad anse, l’emersione di peduncoli falloidi e di concavità raggrinzite o a ferita, evocano il movimento e il flatus dell’informe, lasciando finanche immaginare l’emissione di umori e rumori. Queste forme, che rappresentano per l’artista manifestazioni del pensiero nel loro aspetto più astratto, vivono sia come entità autonome che in relazione a figure umane (serie dei “Contatti”).
Con le biomasse si affaccia la categoria, prima negata, del perturbante, si insinua il caos nell’ordine e non si assecondano più tutti i pregiudizi e tutte le forme percettive ormai consunte, che sono prodotte dall’arte del bello (non problematico). Come possiamo considerare questo cuneo nello sviluppo artistico di Marchetti, come un conflitto intestino insanabile? Direi di no, in realtà quello delle biomasse è un percorso carsico che si manifesta oggi nella sua compattezza e rappresenta un complemento e uno sviluppo delle figure umane da lei rappresentate. L’artista racconta nell’intervista presente sul catalogo della mostra che fin dai tempi del liceo era solita disegnare, a volte distrattamente a volte d’impegno, ghirigori flessuosi di forme immaginarie, inesistenti, dando forma a qualcosa di puramente mentale. Oggi queste latenze diventano di ceramica e terracotta e occupano uno spazio e un tempo che differiscono da quelli delle figure. Prese a sé stanti le biomasse hanno una funzione centripeta, lo spazio occupato non crea più l’aura per la ricerca di un centro, perché la fruizione è dispersiva a causa della mancanza del codice, e il tempo non si sospende, ma è reale in ragione dell’insorgenza del rumore (inteso sia come suono che come disturbo percettivo).
Queste sculture sono una materializzazione dell’ignoto, dunque per consonanza rappresentano l’estensione concreta del mondo delle figure, come accennato sopra, ed è interessante notare come la dinamica del Corpo senza Organi di Gilles Deleuze, che può senz’altro rappresentare l’inconscio e le potenzialità del rimosso del corpo, venga rovesciata in Marchetti con un’iperfetazione di organi che chiedono spazio e dialogo. Il dialogo a livello rappresentativo si concretizza prima di tutto con i “contatti/scoperta” (Contatto n.1 e n.2), dove la vecchia e il bambino indagano l’alterità a distanza, dove è adombrata una certa ansia conoscitiva, che non sappiamo quali effetti sortirà. In seconda battuta con i “contatti/maternità” (Contatto n.3, n.4, n.5) ci troviamo di fronte a un vero e proprio cortocircuito: la funzione centrifuga della figura umana e quella centripeta della biomassa creano una discordanza perversamente seducente, come la vertigine che si prova sul limitare del vuoto.
Il percorso di Marchetti, nella sua integrità, continua a rimanere sobrio, privo di atti declamatori o di personaggi retorici, ma con gli ultimi lavori, e in particolare con i “contatti/maternità”, non si può non rilevare un sommesso eroismo della figura, che pare aver preso finalmente coscienza dei propri dubbi e dei propri misteri.
Claudia Marchetti nasce a Viareggio nel 1974; nel 2003 consegue il Diploma di Laurea con lode in scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara.
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Pubblichiamo un testo inedito di Daniele Poletti sull’opera di Claudia Marchetti, che risale al marzo del 2007, dunque più vicino alla prima produzione dell’artista, ma che coglie ancora alcune matrici importanti dell’opera.
IL TURGORE DEL DISAGIO
sulla scultura di Claudia Marchetti
di Daniele Poletti
Buongiorno – mezzanotte,
sto ritornando a casa –
S’è stancato di me il giorno
io non certo di lui – (1)
Vorrei di primo acchito –anche se per un osservatore vergine saranno di certo altre le particolarità che saltano all’occhio- ricondurre gran parte della temperie del lavoro scultoreo di Claudia Marchetti a questi quattro versi di Emily Dickinson.
La sostanza blandamente ossimorica e antitetica; l’acufene che ne deriva e che porta disagio; l’apparente spostamento nello spazio; e un certo stoicismo espresso tutto in prima persona, senza filtri.
La scelta di una poetessa vorrebbe anche sommariamente sottolineare, come l’universo plastico di Claudia sia quasi unicamente incentrato sulla figura della donna. (L’artista ci tiene a far sapere che: “E’ già abbastanza complicato analizzare e capire i rapporti tra donne, figuriamoci pretendere di interpretare un mondo lontano come quello maschile!”) (2).
Ma si badi che non vi sarebbe a mio avviso possibilità di comparazione con nomi come Anne Sexton, piuttosto che Ada Negri o Amelia Rosselli, in quanto la Dickinson esprime, rispetto all’opera della Marchetti, il giusto equilibrio fra una quotidianità molto ordinaria e dimessa e la potenza espressiva che va a dargli voce e può aprire a mondi ben al di là del quotidiano.
La blandizie retorica dicevamo; la ritroviamo nella modellazione stessa della creta: di taglio solidamente classico e figurativo, riesce però a prendere le distanze dagli aspetti più illustrativi o narrativi, per approdare al fatto (basti ricordare alcuni apodittici titoli, come “Donna in piedi”, “Addormentata”, etc.). Per dirla con Deleuze (3), ci troviamo di fronte più a un figurale che a un figurativo; con l’estrazione della figura, col suo isolamento, c’è, attraverso una serie di lievi accorgimenti (intenzioni), la tensione verso l’astratto, che leggeremo più avanti come una metafisica del quotidiano.
Proprio grazie a questi piccoli particolari, si svela progressivamente e inesorabilmente una disfonia nell’alfabeto della modellazione figurativa, che può produrre anche disagio nello spettatore.
Le donne di Claudia Marchetti occupano saldamente uno spazio, ma secondo una dinamica primariamente mentale.
Come in Dickinson il “ritornare a casa”, non è altro che un movimento metafisico, così nell’espressività delle sculture assistiamo ad una traiettoria, sì di ritorno, ma del pensiero, in cui il corpo diventa bitta di ancoraggio e testimonianza ossimorica, appunto, della massima entropia emozionale, allo stato di minimo dinamismo fisico.
Questo atteggiamento a tratti stuporoso dello stare delle figure di Marchetti, rappresenta una sottilineatura di sospensione di uno stato e dunque una forma di resistenza “al pandemonio dell’immagine” (4), che tùrbina intorno a noi e rischia di farci perdere la bussola.
Gli occhi dell’uomo
vedono all’esterno
ciò che in realtà è
un tormento interiore (5)
Il minimalismo e l’aggraziata e sapiente modellazione della creta, dovrebbero indurre l’ipotetico osservatore ad un avvicinamento verso l’opera; ed è qui che sta il gioco più serio della nostra artista, sollecitare il gusto per l’investigazione.
In prima battuta l’attrazione estetica produce quasi un adescamento, che poi carpisce magneticamente lo spettatore e fa sterzare l’ago di quella bussola, sul cardo della riflessione emotiva.
Gli occhi rappresentano il fulcro sul quale poggia l’espressività densa, mai eclatante, ben calibrata da un’intenzione intima e riservata, delle donne di Claudia Marchetti. Se il magnetismo dello sguardo inizialmente pietrifica, come di fronte a un’inquietante Medusa, la sensazione che se ne ricava subito dopo è di una sotterranea, ma decisa malinconia.
Questa sensazione non ha niente a che vedere con la commozione o con la compassione, né, per la rappresentazione in sé, con l’aridità e la chiusura verso il mondo descritta nella classica Iconologia del Ripa. C’è piuttosto una volontà comunicativa strenua, che proviene direttamente dall’intimità, a tratti autobiografica, e che per il tramite dello sguardo si imprime nella disponibilità di ascolto di chi vede.
Sull’asse degli sguardi che viene a crearsi, fa la sua marcia di andata e ritorno nel segno di un inturgidimento progressivo, l’attitudine al disagio: condizione contemporaneamente espressa dall’opera e provata di fronte all’opera.
Claudia Marchetti esprime con le sue sculture il congelamento di un attimo qualunque di vita quotidiana, in cui viene convogliato tutto il senso di irregolarità, di inadeguatezza, di un sentire che astrae la figura nella sua solitudine, rispetto al frastuono e al vortice delle dodici ore di giorno.
In questo tempo riconquistato per il “sé”, la scultura si costituisce come vera e propria icona.
Non a caso l’uso frequente nelle patine della foglia oro, sublima ancor più lo slancio di ricerca spirituale; ricerca tutta vissuta col travaglio delle vesti che ritroviamo nei nostri armadi (o meglio in quelli dell’artista!). Queste donne prepotentemente anti-retoriche/eroiche, ricordano nell’immediato gli accenti lievi del cinema di Rohmer, dove si consumano, nel e sul corpo femminile post-rivoluzione sessuale, tutte le piccole grandi lacerazioni della contemporaneità.
C’è in questo approccio, se non proprio una negazione, almeno una forte distanza dall’aspirazione alla maternità, che però in Claudia risulta indirettamente ridimensionato dall’uso stesso del materiale scultoreo. La creta è terra, perciò materia viva, che pulsa nelle mani dell’artista secondo un’istanza generativa vocata dall’immediatezza, e per ciò stesso da un’intrinseca naturalità.
Dunque una dimessa, ma al contempo aristocratica metafisica del quotidiano, dove il reale viene filtrato, rielaborato e digerito attraverso ciò che non si può vedere, della quale gli occhi rimangono principale, ma non unica deriva.
Non unica perché nelle figure della scultrice, povere di ornamenti e quasi sempre prive di attributi, assumono una rilevanza notevole la postura e il gesto.
Nella distanza da qualsivoglia velleità simbolica, le sculture di Marchetti mostrano un adagio di segni, che rafforzano la condizione riflessiva (l’artista parla spesso di meditazione, nel senso di una spiritualità del tutto laica), per imporre potentemente all’attenzione una fisicità matronale, che si staglia quasi sempre su uno sfondo di stentoreo silenzio. Emerge dunque da queste figure l’aspetto archetipico del femminino, che solidamente vuole imporsi nello spazio. Il radicamento delle gambe alla terra (maggiormente evidente nei primi lavori, anche per la modellazione più greve), trasforma tutte queste donne in ballerine: un attimo dopo una piroetta e un attimo prima di un nuovo spostamento. Nella stasi della proiezione interiore si crea una tensione dinamica, che allontana dal senso di passività, per dimostrare anzi una coscienza vigile sulla realtà e sui legami.
Lo sguardo austero e sospeso delle sculture di Claudia Marchetti, è uno sguardo che vede.
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Note:
1. Emily Dickinson – Tutte le poesie (n°425); Mondadori editore
2. Intervista a Claudia Marchetti presso il suo Studio, di Daniele Poletti; febbraio 2007
3. Gilles Deleuze – Francis Bacon. Logica della sensazione (Quodlibet, 1995)
4. Derek Jarman – Chroma (Ubulibri; 1995)
5. E.M. Cioran – Al culmine della disperazione (Adelphi; 1998)
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