Di seguito vi presentiamo una breve intervista che abbiamo fatto al poeta Augusto Blotto, in occasione dell’uscita del numero 7 di [dia•foria. E’ un’occasione per approfondire o avvicinarsi a un autore unico nel panorama letterario italiano, per la sua scrittura completamente fuori dagli schemi. Oltre alla pagina Wikipedia e al volume della Giornata di Studi a lui dedicata nel 2009 (con interventi critici di Stefano Agosti, Giovanni Tesio, Giorgio Barbèri Squarotti, Sandro Montalto, Stefano La Notte, etc.), potrete trovare ulteriori notizie e diversi inediti alla pagina del nostro blog Blotto.
D1) Gentile Augusto, partiamo da una domanda (due in verità) canonica e all’apparenza banale, ma che nel suo caso, considerate quantità e qualità di scrittura, può sortire aspetti inusuali e interessanti: cos’è per lei la poesia? E perché ha deciso di registrare il reale in versi e non in prosa?
R1a] Poesia è quando, davanti a un testo in prosa o in versi, una spina ti si ficca nel midollo e, mentre ti sprofonda nel convincimento di avere sinora sbagliato tutto, nello stesso istante ti dà la certezza che d’ora in avanti tutto sarà chiaro.
A questo stato di grazia sopravviene quasi sempre subito il corso dei vari interessi, l’autostima in difesa, l’affidamento alla tradizione; ma chi l’ha raggiunto anche solo una volta ne riconosce il morso.
R1b] Parliamo di modernità, cioè grosso modo da Chateaubriand in poi: nello sconfinato magazzino della poesia in narrativa trovo tutto ciò che desidero e anche cose che nemmeno immagino. Non altrettanto mi riesce nel magazzino della poesia in versi. Allora, gli scaffali vuoti o incompleti m’industrio a riempirli con cose che mi fabbrico…
Fuori dalla battuta (che però è tale solo fino ad un certo punto) ricordo che ho iniziato con poesia in narrativa ( 5 “romanzi” e due lunghi frammenti) per accorgermi ben presto che quello non era il mio “tono”( non c’era “necessità”) e migrare quindi, seppur lentamente e a fatica, alla poesia in versi. Pregna comunque sempre di una urgenza narrativa. I cosiddetti romanzi, come altrove già detto, non sono da me riconosciuti (assieme a un libro di versi italiani e uno di versi francesi).
D2) Ci parli dei vari periodi creativi che ha attraversato il suo percorso poetico, sappiamo di poterne indicare almeno cinque.
R2]Si indica una data convenzionale per l’inizio della mia attività, il 23 novembre 1949, che è in effetti una presa di coscienza e l’inizio della stesura del “romanzo” Un posticino morale .
Gli anni 1950-51 furono di frenesia creatrice (4000 pagine, 18 volumi) con risultati per me assai dubbi e deludenti, poiché manca nei testi un vero distacco da quanto si scriveva allora in Italia (la koinè postmontaliana). Tanto è vero che quando, negli anni ‘58-‘62 pubblicai 10 di questi volumi, intervenni con inserzioni e riscritture ben più mature, databili ‘53-‘61 e cioè parallele allo stile del secondo e terzo periodo. Ne risultarono dei pastiches la cui incisività rivoluzionaria è stata notata, per esempio, da Barberi Squarotti ( Il titolo di un suo saggio Le cinque dita del rivoluzionario si riferisce ai cinque volumetti usciti nel ‘59).
Il secondo periodo, dal ‘52 al ‘56 è costituito da una gigantesca nebulosa, gremita di ogni sorta di spunti, che ho paragonata al “momento Santeuil” di Proust. Si tratta di tre enormi volumi per 4500 pagine, intitolati Nell’insieme, nel pacco d’aria. Presumo che si possa situare alla fine del ’52 il raggiungimento di una autentica griffe personale.
Il terzo periodo, ’57-‘68 è l’età dell’oro, di costante e piena operosità. Diciotto volumi, di cui otto editi, per un totale di 5000 e più pagine.
Il quarto periodo, gli anni settanta e ottanta, è più aspro e controverso, segnato anche da lunghi silenzi e da un maggior coinvolgimento nella vita attiva. Dodici volumetti, di cui due editi, per settecento pagine o poco più.
Il quinto periodo prende avvio nell’88 ed è un felice ritorno alla fecondità, con una libertà, leggerezza e dismisura connesse forse al gesto, all’ardimento che l’età anagrafica talvolta suscita. Otto volumi di cui uno edito, per 3500 pagine e oltre.
D3) A chi si rivolge la sua poesia? Molti, leggendola, rimangono sulla soglia dell’indecifrabilità, mentre nella sua scrittura è ben riconoscibile –ove investigata non per prelievi sporadici- un codice, che prefigura un intento profondo. Qual è questo intento?
R3] Citiamo Zanzotto: “ Ipotesi leggente” ( ciò a cui si rivolge). Aggiungo: dei cui usi e costumi non abbiamo la minima idea. Posso dire a chi non mi rivolgo? A chi legga per essere confermato (confortato) nelle proprie fedi, dicerie, opinioni.
L’intento. Se fosse possibile isolarne uno solo, in un’opera durata oltre sessant’anni, di tot pagine, ma soprattutto dove ogni pagina è all’insegna del risvolto dell’inaspettato, del “divergente” ( direbbe Solmi) sarebbe una bella noia, non vi pare. Ciò non toglie che non si possano individuare vari motivi guida, spesso apparentemente contrastanti, ma preferisco lasciarne il compito ad altri, che lo fanno, l’hanno fatto, meglio: così Larocchi ( La parola totemica), Ioli (L’idioma “mistico”), Agosti (La lingua dell’evento), Barberi Squarotti ( La totalità ), La Notte ( Poesia in forma di cosa), Rossi Precerutti ( Perspectiva naturalis), Conti (Il presente e lo sconfinato) Di Meo ( Figuratività fantasiabile), Jona (Sublime iterazione) ecc.
D4) Quanto influisce e ha influito il viaggio nelle sue composizioni?
R4] Vittorio Alfieri diceva “ promener son ennui”, per me potrebbe essere “secouer sa paresse”. Come con un vaglio, un setaccio. Penso con un brivido a una vita diversa da quella che ho condotto finora, con uno, possibilmente due spostamenti, impegnativi o modesti che siano, ogni settimana, interminabilmente ma sempre sul rilancio, sul vigore.
D5) I problemi della sua vista, sempre più consistenti, quanto incidono oggi sulla composizione del testo? Considerando che un saggio sulla sua opera potrebbe essere intitolato “La vista e il cammino”.
R5] Per quanto sia stato paragonato a un verme che procedendo capta il circostante con i suoi villi, pure gli occhi, specialmente quando erano ancora due, mi facevano comodo e ne ho sentito la mancanza. Tant’è, per molti anni abbiamo tamponato. Negli ultimi due però la situazione si è fatta impediente. Non mi piace vagare in paesaggi indistinti, né rischiare di non decifrare i segni deformi che traccio sui taccuini.
D6) La sua poesia è più vicina al cinema o alla musica? Leggendola ci si trova di fronte a una forma di simultaneismo, che da un lato ricorda il cinema più sperimentale o certa parte della videoarte, dall’altro le esperienze più estreme di crossover (commistione di generi), alla John Zorn per esempio. E Blaise Cendrars c’entra qualcosa?
R6] Cinema e musica hanno certo contato e se ne ravvisano tracce e influssi, senza che possa privilegiare l’uno o l’altra. Magari in manifestazioni più vecchiotte rispetto alle punte di diamante che mi citate e che non conosco a sufficienza ( senza escludere parallelismi sotterranei). Ho letto B.C. nel volumetto di Pierre Seghers Poètes d’aujourd’hui nella tarda primavera del 1952. Mi lusingavo di aver fatto la mia transibérienne con un lungo poemetto intitolato “Jugoslavia”; c’è anche un’altra grossa composizione, “Guerra”, risalente a quell’epoca e sotto quell’influsso, compresa, come la precedente, nel volume” L’alta ruota gommata”.
Mi hai fatto venir voglia di riprenderlo in mano adesso, dopo sessant’anni di latenza ( però mi flottavano di tanto in tanto nella memoria parecchie sue movenze, certamente della Transiberienne, ma anche quella del molo di Pernambuco ecc.
Ho parlato prima di influssi, se mai si dovesse usare questo termine nel mio caso. Credo però di aver già detto altrove che, per supposte ascendenze il nome da fare è Henri Michaux, soprattutto per il mio secondo periodo 1952-56.
D7) “Tentare di esaurire tutto il dicibile”. Il suo è un approccio di tipo dantesco: esperienziale e sapienziale allo stesso tempo…
R7] E’ stato detto, e sono abbastanza d’accordo. Non dimentichiamo però il rilievo che attribuisco alla “vis comica” senza la quale non mi pare esista vera grandezza. In tutta la mia opera ronza il sottofondo della costante coscienza della propria (e altrui?) bassezza.
D8) Nelle sue poesie sono spesso presenti parentesi tonde (molte), quadre, sottolineature e frammentazioni di parola con trattino di “a capo”: potrebbe meglio illustrare l’uso di questi strumenti e di altri, se ce ne sono, nell’economia del suo fare poetico?
R8] E’ una domanda interessante, che mi permette alcune messe a punto cui tengo abbastanza. Le parentesi tonde, le lineette di inciso, le sottolineature, sono parte integrante di ogni singola composizione, e cioè concorrono di volta in volta a formare il testo, con la funzione che è necessaria in quel preciso ambito né più né meno di tutti i vari segni di interpunzione e , direi, di tutto il resto del materiale, pronomi, nomi, verbi, avverbi, aggettivi ecc… Si può osservare che perlopiù sono esponenti (le parentesi e gli incisi) della contemporaneità, chiamiamolo contemporaneismo, dei piani sovrabbondant’intersecantisi.
La parentesi quadra riveste invece un ruolo costante: una opzione; si può ( o si deve) leggere il testo una volta con, una volta senza le parole incluse nelle parentesi quadre, favorendo, oppure no, la soluzione più appropriata.
La spezzatura di una parola in fondo al verso (attenzione, quasi sempre con lo sberleffo di una irregolarità grammaticale) equivale per me all’uso della rima, (che ho praticato molto raramente): una beffarda, esagitata sottolineatura di situazioni estreme nel comico o sublime ( che considero pressoché sinonimi, almeno nella mia opera, come credo di aver già detto).
D9) Cosa mi risponde se le dico le parole: Avanguardia, Sperimentale, Ricerca?
R9] Tutto ciò è bello e buono, ma quello che conta è Trovare ! (risposta di buonsenso un po’ volgarotto, che mi pare abbia dato anche Picasso).
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